Detroit è la capitale dello stato del Michigan, negli Stati Uniti. È soprannominata Motown, “città dei motori”, perché vi hanno sempre avuto sede alcune delle più grandi fabbriche di automobili del mondo.
La presenza di questi giganti ha portato la città a una presunta ricchezza, che in realtà è sempre stata a dir poco mal distribuita tra i membri dei quadri dirigenziali delle suddette fabbriche (praticamente sempre bianchi) e gli operai (a maggioranza afroamericana). Massacrata dalla crisi del settore automotive e da quella economica globale, nel 2014 Detroit è diventata la più grande città americana di sempre a dichiarare bancarotta. Ad oggi è la città più povera degli Stati Uniti d’America.
Detroit è una citta operaia, in cui la popolazione nera, ossia l’80% di quella totale, vive in quartieri che fondamentalmente sono ghetti di dimensioni gargantuesche, con tutta la violenza e la miseria che ne consegue.
Ma è nelle periferie – e chi ci è cresciuto lo sa – che la passione si espande nella sua forma più pura e creativa, proprio per via di quel desiderio profondo di evadere, di vivere un sogno, di immaginare un mondo più giusto. Quella passione, può assumere innumerevoli forme ma due delle confermazioni più esaltanti e diffuse sono l’arte e il tifo…
E negli immensi sobborghi di Detroit, infatti, nascono e crescono alcune delle più sensazionali innovazioni musicali e un esercito di artisti di spessore. Uno dei più influenti nasce nel 1974 col nome di James Dewitt Yancey, ma passerà alla storia con lo pseudonimo di J Dilla.
Per quanto riguarda il tifo, Detroit è sempre stata una delle piazze più calde, nonostante gli scarsi successi delle sue scapestrate squadre di baseball e football americano. La sua gente ha trovato una squadra con cui consolarsi nei Pistons del basket, campioni NBA per due volte a inizio anni ’90, con una squadra di talentuosissimi criminali, i Bad Boys tanto odiati da Michael Jordan. A inizio anni 2000, poi, è cominciato un capitolo nuovo per i tifosi del Michigan.
Non sono l’uomo giusto per discettare con cognizione di causa delle innovazioni introdotte e/o sviluppate da Dilla nell’hip hop, sul suo Akai, sul suo stile e i suoi capolavori. Il lavoro di Dilla lo si trova sotto diversi nomi, diverse situazioni, ma la sua incommensurabile influenza va ben oltre le sue pubblicazioni ufficiali.
Lo stesso vale per i Pistons di inizio anni 2000. Sulla carta i loro successi, i loro numeri, sono quel che sono: impressionanti, notevoli, ma niente di unico o irrepetibile. Dietro, tuttavia, c’è tutta una faccenda culturale che non salta immediatamente all’occhio.
Facciamo un passo indietro: Dilla nasce nel 1974. Sua madre, cantante, ha detto che prima che imparasse a parlare sapeva già combinare alla perfezione armonie e intonazioni. La sua infanzia è simile
a quella di tanti altri ragazzi come lui, anche se sta meglio di molti suoi coetanei. Solo che la polizia, vedendolo vestito relativamente bene, dà per scontato che abbia fatto i soldi spacciando: pertanto, subisce innumerevoli controlli e fermi motivati da una matrice puramente razziale.

Tutta questa merda non gli va giù e per cercare di cambiare le cose dall’interno, ancora adolescente, prova una carriera in polizia.
Peccato che nel giro di pochissimo tempo si trovi ad assistere a così tante aggressioni, molestie e racial profilings da parte dei suoi colleghi che, ben presto, decide di scartare questa vita per dedicarsi alla musica. Passione, che gli permetterà di dare uno sfogo artistico al suo risentimento verso le forze dell’ordine, in particolare nel brano del 2001 Fuck the police, il cui titolo è già abbastanza eloquente.
Mentre Jay Dee cresce e matura, i Pistons svoltano la loro storia
Tra il 1980 e il 1985 arrivo diversi giocatori talentuosi e malfamati, che si portano dietro la reputazione di bravi ma sregolati. A guidare la combriccola ci sono Isiah Thomas (uno dei più forti giocatori di sempre), un super scorer di nome Joe Dumars, John Salley (che dopo il ritiro si reinventò manager musicale, diventando anche agente di J Dilla per un certo periodo) e Bill Laimbeer, difensore asfissiante, generalmente considerato il giocatore più scorretto di tutti i tempi. Il gruppo è affiatato, ma manca qualcosa, un ultimo tocco di follia.

Ed ecco che al Draft del 1986 i Pistons scelgono Dennis Rodman, concentrato di eccentricità allo stato puro, futuro amico di dittatori nordcoreani, assiduo frequentatore dei casinò e via discorrendo.
È l’ultimo tassello, che porta il caos a un livello tale che diventa ordine.
Nel giro di tre anni, i Pistons, prima combattono e poi rovesciano lo strapotere dei Lakers di Magic Johnson. Vincono due titoli NBA, la città festeggia per giorni e in breve tempo Detroit diventa la squadra più odiata e più amata degli Stati Uniti.
È con la stessa arroganza che comincia il disco sinottico di J Dilla, The Shining, quello che racchiude con più completezza i suoi gusti e la sua idea di musica. Apre le danze la prima traccia
Geek down: J Dilla, let’s barbecue these motherfuckers!
Parte una violenta base quasi trap (ante litteram) e il vocione di Busta Rhymes fa subito capire all’ascoltatore che il disco non ci andrà per il sottile. Finisce questa intro devastante e comincia la prima traccia vera e propria, un trip che ricorda il Kanye West di Late Registration: ipnotica, classica e futuristica allo stesso tempo. Anche questo pezzo vede la collaborazione di un mostro sacro, Common.
A ogni traccia il progetto di Dilla si fa sempre più evidente: per quest’album – il suo capolavoro – ha voluto intorno a sé i migliori, i suoi artisti preferiti, proprio quelli che voleva.
Esattamente come ha fatto Joe Dumars. Dopo i due titoli, infatti, quei Pistons leggendari si erano dispersi: qualcuno si era ritirato e qualcun altro aveva cambiato squadra (talvolta finendo a fare letteralmente a pugni in faccia con gli ex compagni). Dopo qualche anno pallido per la squadra, la leggenda vivente Dumars – uno dei principali Bad Boys – si ritira e l’anno successivo diventa President of Basketball Operations dei Pistons. Tramite scambi e scelte al Draft, mette insieme una squadra di giocatori tosti, arcigni, talentuosi e sottovalutati. Tutti difensori pazzeschi, ma tutti sottovalutati. C’è il capitano Chauncey Billups, soprannominato Mr. Big Shot per la sua efficacia nei tiri decisivi. Ci sono Rip Hamilton – tiratore letale – e Tayshaun Prince, difensore di ferro dal fisico filiforme.

C’è “Big” Ben Wallace, un vero e proprio animale sotto canestro. Poteva arrivare un fenomeno, ma al Draft del 2003 – dove potevano scegliere
fra Carmelo Anthony, Dwyane Wade e Chris Bosh – i Pistons di Detroit scelgono un ragazzone serbo che deluderà tutte le aspettative. Anche stavolta manca quella pillola di talento e follia, che arriva puntualissima nel 2004, reduce da otto anni di fuoco ai Trail Blazers (altra squadra di criminali e pregiudicati, per questo soprannominata in quegli anni Jail Blazers).
È Rasheed Wallace, uno dei giocatori più talentuosi, geniali, incostanti e ribelli di tutta la lega. Oggi è ricordato per essere stato un gigante dalla classe infinita, per essersi aggiudicato il record di falli tecnici – ossia quei falli che non comportano un contatto fisico, ma comportamenti antisportivi, proteste, ecc. – fischiati contro un singolo giocatore. Mai esistito un giocatore che ha più odiato gli arbitri e che gli arbitri hanno odiato più di lui, raramente un giocatore è stato così tanto adorato e disprezzato dal pubblico NBA.

Rozzo e irrispettoso sì, ma con due mani fatate. Di una poesia inarrivabile. Il corrispondente musicale delle mani delicate e forti di ‘Sheed è il sesto pezzo del disco, il capolavoro tra i capolavori di Dilla: So far to go.
Per questo pezzo storico ritorna sulla traccia Common – uno dei più importanti rapper di sempre – insieme al principe maledetto del RnB D’Angelo, Lord del genere e genio con pochi pari. Il risultato è un
componimento di una delicatezza unico, estremamente sensuale, arrapato e rappato con maestria ineguagliabile.
Al suo interno è descritta una relazione realistica, fatta di sesso e litigi, parolacce e dolcezza; riassunta in un verso che descrive con incredibile precisione i Pistons del 2004 e il ricordo che hanno lasciato:
you’ll remember this hardcore gentleness.
“Ricorderai questa gentilezza rozza”. Così è stato con Dilla, la cui eredità lasciata all’hip-hop va ben oltre le views e gli streams. E così anche con quei folli Pistons di Detroit, che già nel 2004 sconfissero la superpotenza Lakers (già, anche stavolta) e vinsero il titolo. Ne vinsero uno solo, ma che lasciò un segno ben più profondo di molti altri, per quello che quella squadra di scappati di casa aveva rappresentato per una città, per una nazione, per milioni di ragazzi, di reietti e di diseredati.
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Una risposta a “Welcome 2 Detroit: The Shining di J Dilla e quei maledetti Pistons”
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