Un vecchio adagio della saggezza popolare suggerisce che il passato non muore mai. La regola sembra essere valida anche per l’industria discografica indipendente, con il post-punk revival che dagli anni Dieci di questo millennio ha conquistato la propria fetta di pubblico. Un tour alla scoperta del meglio della scena USA, tra synth e suggestioni goth-pop.
Nel suo oramai iconico Retromania il critico musicale britannico Simon Reynolds ci rivela una massima divenuta di riferimento per il consumo culturale contemporaneo: viviamo il nostro presente ripiegati sul passato. Una tendenza nostalgica insanabile, da cui nessuno sembra essere immune, ascoltatori e artisti musicali compresi: irrimediabilmente viviamo nella tentazione di rinverdire quello che è stato, riportando in auge sonorità, tendenze di ascolto e mode che si davano per sepolte.
Guardando a casa nostra, il fenomeno è evidente all’interno di quel vasto calderone ribollente che è stato etichettato come “indie”: i nomi avvicendatisi sulla scena nel corso degli anni recenti (per intenderci, quelli dell’esplosione di community FB come Indiesagio) devono molto al synth-pop di maniera degli anni Ottanta, riproposto attraverso i filtri di una produzione moderna e altamente patinata: una tendenza oramai calante ma che per lungo tempo è stata la regola del circuito alternativo nazionale, portando alla ribalta gruppi come i Thegiornalisti di Tommaso Paradiso, che su un’estetica musicale che si credeva da tempo accantonata hanno costruito il proprio successo.
Lo stesso sembra valere in ambito cantautorale, con nomi come quello di Giorgio Poi che agli anni Settanta devono molto, avendo infuso un’identità indie pop contemporanea in arrangiamenti che a partire dall’esordio Fa Niente hanno strizzato l’occhio alle sonorità psichedeliche dell’epoca.
E dall’altra parte dell’Oceano? Possiamo scovare tendenze sovrapponibili: un recupero di stagioni passate che tornano a vivere nella proposta di band e solisti, oggi fattisi largo nel vastissimo scenario dell’indipendente a stelle strisce. La new wave a base di sintetizzatori e tendenze lo-fi, tra post-punk alla Joey Division e le sonorità più pop-rock dei The Cure sembra essere tornata a nuova vita in questi anni Dieci del nuovo millennio, e a rivitalizzare una proposta musicale con oltre 30 anni sulle spalle ci sono numerosi nomi interessanti. Ma quali sono quelli da non perdere?
Dovendo rispondere a questa domanda, il pensiero corre immediatamente a Black Marble, nome d’arte del polistrumentista, compositore e produttore newyorkese Chris Stewart: influenzato dalle sonorità più oscure della coldwave dei fine anni Settanta, Stewart esordisce nel 2012 con l’EP Weight Against the Door, realizzato in collaborazione con Ty Kube, ex membro della band post-punk di Brooklyn Team Robespierre. La fascinazione per il suono dei synth analogici e le distorsioni emerge prepotentemente anche nel primo album pubblicato: A Different Arrangement suona esattamente come l’interno di un club alternativo dei primi anni Ottanta, con la voce di Stewart che si fa simile all’eco di un passato in bianco e nero.
Un maggior apertura verso la melodia di matrice pop si ha con il successivo full length del 2016 It’s Immaterial: un piccolo, grande disco in cui spiccano tracce come Iron Lung, divenuta uno dei brani più rappresentativi della produzione di Stewart e in grado di catturare perfettamente lo spirito malinconico che aleggia sull’intero disco, grazie ad una coltre di synth, riverberi e linee di basso viscerali.
Esce nell’ottobre del 2019 per Sacred Bones Bigger Than Life, terzo capitolo della carriera di Black Marble e tra le migliori release dell’anno passato: un album fortemente personale, in cui l’artista vira verso atmosfere più luminose e su cui pesa forse il suo trasferimento nella città di Los Angeles. Il clima della Città degli Angeli, con i suoi panorami soleggiati non sembra tuttavia aver cancellato il mood intimista che lega le 11 tracce di questo disco, facendone uno spaccato di vita toccante ed estremamente evocativo. Un ascolto del singolo Feels potrebbe essere di aiuto a comprendere: un ritmo accattivante si unisce alla voce di Stewart che, seppur parzialmente ripulita dalle tonnellate di effetti delle produzioni precedenti, riesce ancora a proiettare in una dimensione sospesa tra sentimentalismo e introspezione a bassa fedeltà.
Tra i solisti che non possiamo fare a meno di menzionare c’è poi John Maus: classe 1980, originario del Minnesota e tra i più instancabili sperimentatori musicali della sua generazione. Una carriera da professore universitario tra Hawaii e Svizzera, unitamente ad una formazione musicale di livello sono due dei punti salienti del suo CV, in cui dopo gli esordi in sordina a base di EP lo-fi si colloca il salto di carriera con il primo album del 2006 (Songs), a cui seguirà nel 2007 Love Is Real.
Una voce baritonale distorta che sembra giungere da lontane profondità siderali, testi grotteschi e martellanti insieme a fascinazioni per la musica barocca sono gli ingredienti di un cocktail che conquista presto fan dell’alternative da tutto il mondo: Maus costruisce da sé sintetizzatori modulari e porta avanti la sua carriera accademica di professore di filosofia politica, confermandosi uno spirito eclettico e dalla creatività difficilmente inquadrabile.
Nella sua proposta si sommano alla goth music degli anni Ottanta un gusto per il songwriting pop raffinato, in un gioco di equilibri che si ritrova anche negli ultimi due album pubblicati: Screen Memories (2017), con influenze darkwave che sembrano richiamare l’immaginario sci-fi anni Ottanta e pellicole di “carpenteriana” memoria, fino a giungere ad Addendum (2018), album che rilegge magistralmente sonorità underground del passato attraverso gli schemi di un art pop in bilico tra pessimismo cosmico, fantasie apocalittiche e fascinazione per epoche storiche passate.
E per quanto riguarda le band, che c’è da dire sul post-punk revival?
Un nome da ricordare sicuramente è quello dei Choir Boy: nati a Salt Lake City nello Utah su iniziativa del frontman Adam Klopp, hanno pubblicato a maggio di quest’anno per Dais Records il loro second album in studio Gathering Swans. Il disco è una seducente sessione synth pop che difficilmente scontenterà i fan di vecchia data del genere, ma che si candida tranquillamente anche a conquistare il cuore delle nuove generazioni avvezze al consumo di queste sonorità.
La lentezza del singolo Nites Like This culla dolcemente l’ascoltatore e fa da perfetto contraltare a tracce più ritmate come Complainer e Sweet Candy, con ritornelli di facile presa e arrangiamenti evocativi che si appiccicano alle orecchie.
Un disco per certi versi meno rarefatto e più variopinto dell’esordio Passive With Desire (uscito nel 2016 e ristampato dalla Dais nel 2018), fatto di atmosfere melancoliche e passaggi sospesi, come quelli che si respirano in I Feel How the Snow Falls e nella toccante Leave Me Be, dove la voce eterea di Klopp chiede semplicemente di vivere, di essere lasciato solo senza nessuna presenza a seguirlo. Una richiesta estremamente personale che a volte fatichiamo a pronunciare e con questo brano trova la sua forma espressiva perfetta, incarnando un desiderio tanto naturale quanto difficile a realizzarsi: quello di tentare ogni giorno di essere sé stessi.
Spostandoci col post-punk revival da Salt Lake City al Portland, in Oregon, troviamo poi i Soft Kill: la band è stata più volte descritta dalla critica come una delle realtà più rappresentative del post-punk revival americano dopo l’esordio del 2011 An Open Door.
La predilezione per le atmosfere synthwave degli anni Ottanta, declinate in una chiave a tratti oscura e sinistra è ben rappresentata dall’album del 2016 Choke.
La voce bassa del cantante Tobias Sinclair combinata all’uso dei sintetizzatori dipinge scenari sonori onirici ed intimisti, che nella più recente uscita Savior, risalente al 2018, si dissipano per lasciare spazio ad un campionario di influenze più vasto, dove il post-punk si somma a spunti per certi versi prossimi ad un rock più classico.
Che siate nostalgici desiderosi di ritrovare sonorità di un’epoca passata senza per forza fare affidamento alle reliquie del genere o neofiti determinati ad espandere il vostro orizzonte di ascolti, troverete forse in queste proposte di post-punk revival una soluzione alla vostra sete di musica nuova. Stando attenti a non farvi prendere troppo dalla nostalgia, soprattutto per chi si rispecchia nella prima categoria.
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Una risposta a “Vintage è bello: il post-punk revival ci insegna che il passato non muore mai”
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