DEEP DIVE TRACKS: Guinevere – To All The Lost Souls

“TO ALL THE LOST SOULS” è l’album di debutto di Guinevere, il progetto più personale e autobiografico dell’artista che si presenta come uno schermo infinito, su cui scorrono vecchie pellicole di memoria, una finestra che si affaccia su un diario aperto. È traccia degli anni in cui l’artista ha lottato contro la depressione, affrontando una serie di temi profondi prima di riuscire a ritrovare la luce.

“TO ALL THE LOST SOULS” conferma e amplifica la qualità e le ambizioni del profilo artistico di Guinevere, che ci ha raccontato il suo nuovo album traccia dopo traccia:

LITTLE BLUE GIN
“Little Blue Gin” è una ninna nanna che ho dedicato alla me bambina. L’ho scritta in un momento di grandissimo dolore mentre mi guardavo allo specchio, in una notte piena di lacrime. Mi sono immaginata che la voce narrante fosse una Guinevere del futuro, più saggia, centrata e adulta, una parte di me che ha già superato quel dolore e che riesce a vedere le cose dall’alto. Il brano contiene in sé due forze motrici che spingono in direzioni opposte: da una parte il dolore derivante dalla profonda solitudine che ho provato nel corso della mia infanzia e età adulta, dall’altra la volontà di guarire, curare quelle ferite e ritrovare la serenità. È una carezza, un abbraccio, un “anche se non c’è nessuno, io ci sono e ci sarò sempre per me stessa”.

UNRAVEL
“Unravel” è dedicato ad un mio caro amico che cinque anni fa si è tolto la vita. Qualche mese dopo la sua scomparsa l’ho incontrato in sogno, era in piedi tra le rocce vicino al mare e mi cantava una melodia. Ricordo di aver danzato assieme a lui su quelle note, fino a quando, prendendomi le spalle e guardandomi negli occhi mi ha detto: “Gin, devi svegliarti e scrivere questa canzone, è importante, altrimenti al tuo risveglio svanirà e non tornerà mai più”. Al tempo soffrivo di insonnia e ogni ora di sonno era per me preziosa, ma dopo qualche tentennamento ho deciso di svegliarmi e scriverla. La melodia ricevuta in sogno poggiava su degli arpeggi di chitarra classica che mio papà aveva scritto quando aveva vent’anni e che mi aveva fatto sentire due anni prima di quella notte e poi mai più. Coincidenza vuole che quella notte fossi proprio a casa dei miei genitori in Toscana, così ho aspettato fino al mattino per chiedere a mio papà di suonarmi quegli arpeggi. Da questo intreccio di generazioni, sogni, messaggi e storie nasce “Unravel”, un luogo-non luogo più che un brano, una dimensione atemporale tra terra e cielo in cui incontrare Andrea e condividere, nel ricordo, il nostro legame.

WINTERSICK
“L’impulso ad andarmene che sento dentro è perché è giusto allontanarmi da ciò che mi circonda o è perché ciò che ho davanti mi fa paura? Dovrei restare e passarci attraverso o andarmene?” Wintersick nasce d’inverno, con la testa appoggiata ad una lampada Ikea. Il tempo era grigio da troppo tempo e anche solo la luce della lampadina che arrivava dritta negli occhi mi aiutava a stare meglio. Il brano è una riflessione sul fuggire da ciò che ci fa paura e su cosa significa invece restare.

foto: Angelica Cantù Rajnoldi

I NEED A GLASS OF WATER
“I Need A Glass Of Water” è un grido solo e assordante, una richiesta di aiuto, un’indagine sulle origini del profondo dolore che porta la depressione e il disturbo d’ansia.
È un brano che parla di suicidio, del voler semplicemente non esistere, di quanto sia difficile esprimere il proprio dolore in una società che non vuole accettarne l’esistenza e della solitudine che ne deriva. È anche uno spazio in cui mi sono chiesta le origini di tutto questo, domandandomi se per caso l’embrione di questa grande ferita si nascondesse in qualche anfratto della mia infanzia. “Do my wounds go back to you?” – chiedo alla me bambina, sperando di ricevere risposta. Questo brano è stato per me uno spazio in cui far esistere fuori da me le voci assordanti che mi occupavano la testa, un modo per esorcizzare i continui attacchi di panico. Alla fine, in questo grande campo di battaglia che è la vita, forse tutto ciò di cui ho bisogno è un bicchiere d’acqua.

LETTERS FROM A BODY
Cosa significa avere un corpo, memoria di traumi passati e custode di secoli e secoli di abusi e ingiustizie? Come posso fidarmi di chi tocca il mio corpo, se le mani che l’hanno toccato in passato l’hanno trattato come fosse un oggetto? “How do I love if all I have for myself are words of judgement?”. “Letters From A Body” è una lettera dal mio corpo ad altri corpi che, come il mio, soffrono queste ferite: “My body is a pleasing shape, a soft surface to lay your hands for you. To me it’s a tangle of big questions that are too painful to go through”.
Scriverlo è stato liberatorio, mi ha permesso di poggiare su carta, con onestà e coraggio, ciò che comporta per me essere donna e avere un corpo costantemente sessualizzato. Mi ha permesso anche di accettare che, forse, per dare una risposta a tutte queste domande ci vuole semplicemente del tempo e un’estrema, delicata cura.

EVERYBODY DIES
Ho scritto “Everybody Dies” nella primavera del 2021, mentre stavo iniziando a produrre il mio primo EP “Running in Circles”. In quel periodo mi sembrava di vedere tutto e tutti crollare, andarsene, morire. Avevo appena ricevuto una chiamata da mia mamma, mi diceva che una sua cara amica era appena mancata e che giusto qualche giorno prima si erano scambiate qualche messaggio. Quei mesi erano molto difficili per me, stavo molto male e pensavo spesso al suicidio, ma continuavo a vivere l’esperienza dal punto di vista di chi resta qui e vede tutti gli altri andarsene: “staying has never felt so painful”.  Provavo una strana sensazione dentro, come se leggessi un’amara ironia dietro a tutto questo, un doloroso misantropo sarcasmo. Stavo andando al mare per prendermi una pausa con degli amici ma mi straniva notare l’assurdità paradossale che vedevo davanti a me: tutti ridono, scherzano e si divertono, mentre da qualche altra parte qualcuno muore e attorno a lui c’è una massa di persone in lacrime. Mi sono immaginata l’immagine dolce-amara di un qualcuno che sorseggia tranquillamente del thè inzuppandoci biscotti, circondato di barelle in corsa. “Everybody Dies” rappresenta la sfumatura di sarcasmo che vive nella sofferenza, che forse, in fondo, è solo il modo inconsapevole che applichiamo per proteggerci dal dolore.

A MESSAGE
“A Message” è un piccolo interludio nato mentre stavo riprendendo in mano la scrittura di “Generational Fear” nell’Aprile del 2023. In quei giorni mi trovavo con Damon Arabsolgar alla Pieve di San Martino in Veclo, in una chiesa sconsacrata che ci ha accolto mentre ultimavamo la scrittura e registravamo le demo di “Generational Fear” e “Rough Skin”. In un momento di pausa ho riaperto le pagine di uno dei miei diari di quegli anni (tra il 2017 e il 2021) e ho ritrovato un piccolo scritto in rima di cui mi ricordavo appena la melodia. Ho chiesto a Damon di posizionare un microfono nel giardino davanti alla chiesa con l’idea di registrare qualcosa di estemporaneo e fresco da inserire nel disco. Un po’ come “Everybody Dies”, anche “A Message” nasconde quella stessa amara ironia. È una sensazione che mi ricordo di aver provato spesso in quegli anni: stare malissimo ma trovare del sollievo nel forzarmi a rendere quello stesso dolore una cosa leggera e quasi superficiale, raccontata così come viene, cantando tra gli uccellini.

GENERATIONAL FEAR
“Generational Fear” nasce da un momento di profondo dolore, dal pericolo di una disillusa rassegnazione all’incapacità di affrontare la vita e dalla frustrazione che si prova nel guardare una generazione di giovani pronti a cambiare il mondo, ma oppressi da un sistema che limita la libertà individuale e che non accoglie la sensibilità, il cambiamento e la diversità. “Generational Fear” è il ritratto di una generazione che, pur traumatizzata, scossa e profondamente in crisi, lancia un grido di speranza e invita l’umanità ad unirsi. È un coro collettivo che vuole restituire voce a coloro a cui la voce è stata tolta. È un invito a tenerci per mano e a credere insieme, con forza e determinazione, in un mondo nuovo.

ROUGH SKIN
Il testo di “Rough Skin” è tratto da una poesia che ho scritto in riva al fiume nel 2022, dopo un attacco di panico avuto il pomeriggio precedente. Ho sempre avuto una rapporto estremamente conflittuale con la mia pelle, è sempre stata piena di imperfezioni, estremamente delicata e soggetta a mille problematiche diverse. Negli anni ho sempre cercato di nasconderla e di relazionarmici il meno possibile, ma è sempre stato impossibile: la pelle è lo strato di separazione tra noi e il mondo, ed è l’unica cosa che definisce la superficie del nostro corpo e che viene costantemente vista. Quel pomeriggio avevo notato che lo sguardo della persona che avevo davanti non era direzionato ai miei occhi, ma alle mie guance e la mia fronte, che in quei mesi erano tempestate di acne dovuto al periodo di forte stress e dolore che stavo vivendo. Mi aveva fatto stare malissimo l’idea che di me si vedesse solo quello. Quella sera ho preso la macchina e sono andata a dormire sul Monte Sole fuori Bologna, per stare da sola e ritrovare il mio centro, al mio risveglio sono andata al fiume e ho scritto di getto tutto ciò che sentivo. Ma è solo qualche mese più tardi che nasce davvero “Rough Skin”: quella stessa estate ero al mare con Damon Arabsolgar, che stava suonando degli arpeggi bellissimi alla chitarra, tra i più belli che avessi mai sentito, gli ho chiesto cosa fossero e se potessi improvvisarci qualcosa sopra. Pochi secondi più tardi ho aperto il mio diario in un punto a caso ed è spuntata la poesia di “Rough Skin”. Anche Damon lo stesso giorno in cui avevo scritto la mia poesia ne aveva scritta una, raccontava di una notte passata insieme a dormire in una capanna in mezzo ai colli, addormentati sotto ad un cielo pieno di lucciole e stelle, un’unica costellazione fatta di moltitudini di piani diversi. Nel vedere lucciole e satelliti confondersi gli uni negli altri, ragionava su quanto anche la nostra identità, la nostra pelle e il rapporto con l’altro fosse fatta della moltitudine che vive in noi, di tutti i batteri che, nel nostro corpo, contribuiscono a definire chi siamo, alla fine, siamo “all these things at once”.
Io e Damon, in fondo, stavamo parlando della stessa cosa ma da punti di vista diversi.

INTERLUDE // FALLING DOWN
“Interlude // falling down” è in assoluto l’estratto più estemporaneo e spontaneo del disco. È nato in studio con Arturo Zanaica al piano, subito prima di registrare “Sorry”.

SORRY
“Sorry” è un brano che ho dedicato alla mia famiglia, che mi è stata vicina nei quattro anni e mezzo in cui ho sofferto di depressione. Scriverlo è stata per me un’occasione per ringraziarli e per spiegare a mente più lucida ciò che non sarei mai stata in grado di dire prima, proprio perché mi era impossibile capire cosa mi stava succedendo. L’ho scritto nel maggio del 2021 quando iniziavo a stare leggermente meglio e, ogni tanto, a vedere minuscole fessure di luce.

THE EQUILIBRIST
Nel gennaio del 2022 è venuto a trovarmi in Toscana Stefano, un mio carissimo amico. Quel giorno siamo andati in spiaggia e, sulla riva del mare, parlavamo di quanto fosse difficile credere in se stessi e farsi strada in un mondo così ostile e complesso. Vedevo nei suoi occhi un macigno di sofferenza e ferite troppo dolorose per essere viste, ma sentivo quanto fosse necessario e vitale per lui passarci attraverso. Stefano si è alzato e ha iniziato a camminare sulle rocce davanti a me, ogni tanto inciampava, mi guardava e sorrideva, poi continuava a camminare, come a voler sfidare passivamente le inclinazioni fastidiose di quel paesaggio. Mi è sembrato di vedere in lui l’immagine di un equilibrista sul crinale della sua stessa vita, che si ostina a camminare su quella linea retta per paura di guardare cosa ha sotto i suoi piedi. In quel tentativo di resistere all’equilibrio ho visto la metafora di ciò che per me stava vivendo Stefano nel suo quotidiano, ho aperto il mio diario e ho iniziato a scriverci una poesia che ho intitolato “Oh lonely man”. Quella stessa sera, dopo aver cenato, ho deciso di condividerla con lui. Vicino a noi c’era la chitarra classica di mio papà. L’attività preferita di me e Stefano è sempre stata quella di cantare e suonare insieme, lui alla chitarra, io con la mia voce.
Ricordo di avergli chiesto di prendere lo strumento e improvvisare qualcosa di “storto”, un po’ triste, un po’ dolce, su cui io potessi cantare quelle parole. È nata così “The Equilibrist”, forse tra i brani più matti che abbia mai scritto.

RESTLESS FLESHES
“Restless Fleshes” nasce nel 2020. Ero in Toscana dai miei genitori, stavo molto male, in quei mesi soffrivo moltissimo di insonnia e non dormire aggravava molto la mia situazione psico-fisica. Ero sul divano e non trovavo neanche un motivo per alzarmi da lì, quando mio papà viene da me e mi dice: “Gin, ho scritto questa cosa alla chitarra, la vuoi sentire? Penso sia perfetta per un tuo brano!”. La ascolto controvoglia, ma inaspettatamente mi accende dentro qualcosa di fortissimo. Mi vengono immediatamente le prime parti di testo “Woke up in the middle of the night, another sleepless day. But it’s fine”. Passiamo le successive due ore a scrivere e scrivere insieme, il testo scorreva facile e fluido. Ho sentito da subito un grande senso di liberazione, era la prima volta che riuscivo a tirare davvero fuori la mia voce ed era da tantissimo che volevo scrivere qualcosa che rendesse il mio canto più libero e pieno. La scrittura di “Restless Fleshes” è rimasta in sospeso per un po’ di anni – a volte i brani bisogna lasciarli respirare per lasciare che siano loro a dirci, quando sono pronti a farlo, chi vogliono essere. Tre anni più tardi, consapevole di volerlo inserire nel disco, ho ripreso in mano la scrittura del brano con mio papà. Da qui nasce tutta la seconda parte.
Era da tanto che continuavano a viaggiare nella mia testa parti di testo, continuavo a sentire “all my friends, all my friends, all my friends…”. Era un periodo in cui vedevo tutti i miei amici crollare, crollare per davvero. Chi dopo la pandemia aveva sviluppato forti ansie sociali, chi era entrato in depressione, chi entrava e usciva da ricoveri in ospedali psichiatrici. Ed erano tutte persone con una grandissima sensibilità e un potenziale enorme. Li vedevo tutti intenti a mostrare un equilibrio finto, come quei sorrisi forzati di chi, dentro di se, vuole solo urlare forte, erano “restless fleshes before falling”. Alla fine ho scoperto che il brano voleva parlare non solo del mio dolore, ma del dolore che condividevo con la mia generazione. Una generazione che ha perso il controllo, “but they look fine on the surface”.

foto: Stefano D’Angelo

BE LIKE A SPIDER – SHE SAID
Nel luglio del 2021 mi trovavo in Sardegna, ospite di Claudia, una delle mie più care amiche. Ero in pausa dalla produzione dell’EP “Running in Circles” e stavo vivendo un periodo molto strano: avevo un piede nel baratro e l’altro nella luce. Se prima vivevo ogni giorno nel buio più totale, in quel periodo, durante la settimana passavo almeno due giorni a galla e riuscivo a concepire un possibile futuro in cui poter vivere. In quel periodo passato in Sardegna, Claudia mi ha aiutato tantissimo incoraggiandomi a riconoscere quanto la mia esistenza nel mondo avesse un valore e quanto fosse importante vivere. Parlavamo moltissimo e al termine di quel viaggio ho scritto “Be Like A Spider – She Said”, un brano che raccoglie la sintesi di tutti i dialoghi che abbiamo avuto in quelle settimane insieme.
L’idea è nata in una calda giornata passata al mare. Claudia era seduta sul bagnasciuga con la sua chitarra, la colpiva come fosse un tamburo e cantava ripetutamente la stessa melodia. È la stessa melodia con cui parte il brano, e quella che si sente è proprio la sua voce. Verso la fine, sentivo che “Be Like A Spider – She Said” aveva bisogno di esplodere in un coro collettivo. Così ho ripescato tra le pagine di un mio vecchio diario un testo che avevo scritto nel 2019 in un momento molto difficile, in cui però sentivo allo stesso tempo un grande amore e senso di fratellanza nei confronti di tutte le anime che, come me, si sentivano perse. All’epoca avevo 21 anni e stavo talmente male che mai avrei pensato di raggiungere i 25 viva. L’idea dell’album si stava già formando e con quel testo avevo capito che il titolo sarebbe per forza dovuto essere “TO ALL THE LOST SOULS”. Avevo sentito di dover scrivere una lettera a tutti coloro che si sono sentiti persi come me, a coloro che fanno fatica a riconoscersi, o a coloro che abbiamo perduto. Mi dicevo tra me e me “pubblicherò questo disco, sarà la mia lettera di addio al mondo, oppure sarà il punto da cui rinascerò”. Con il senno di poi, è stato senz’altro l’inizio della mia nuova vita. Forse “Be Like A Spider – She Said” è il brano che racchiude più speranza e luce in assoluto, un piccolo grido di incoraggiamento alla me di quegli anni, e a tutte le anime perse nel qui e ora.

PER ANDREA, PER SEMPRE
“Per Andrea, Per Sempre” è un tributo al mio amico Andrea, motore emotivo trainante dell’intero progetto, a cui io dedico questo disco e tutto il mio amore. Si tratta di un audio vocale che mi aveva inviato nel giugno del 2017, era un periodo in cui mi stava aiutando a rilegare i libri della mia tesina di maturità, quindi capitava spesso che si fermasse da me fino a notte fonda, tra mille chiacchiere, musica e brevi corsi di legatoria. Nel 2020, durante la scrittura di Unravel, mi è capitato di rileggere le nostre chat di Whatsapp con l’intento di trovare proprio questo audio. In quel momento non capivo perché sentissi la forte esigenza di riascoltarlo, ma poi quando l’ho ritrovato ho capito tutto. In quel periodo ero completamente ferma nella scrittura di “Unravel”, sentivo che mancava una parte finale per poterla concludere e la melodia che cantava Andrea nel suo audio era ciò che mancava al brano e in qualche modo chiudeva un cerchio: così come mi è arrivato in sogno da Andrea, si conclude con un’idea sua – un po’ come se, in fondo, l’avessimo davvero scritto insieme. Con il tempo ho iniziato a sentire che in qualche modo anche l’audio stesso aveva bisogno di trovare una sua luce e che sarebbe stato bello concludere il disco con ciò da cui il disco è partito: la sua voce.
Così, mi è venuta l’idea di fare una cosa simile a “Jesus Blood Never Failed Me Yet” di Gavin Bryars e Tom Waits. Ho coinvolto Vincenzo Parisi per la scrittura e arrangiamento delle parti di sax, percussioni e quartetto d’archi dandogli carta bianca, con l’idea di creare un mondo di suoni entro cui far viaggiare la sua voce. Ma sentivo mancare qualcosa di fondamentale. È con i mesi e con gli anni che ho capito che ciò che mancava era la collettività: in fondo, questa storia non riguarda solo lui, né solo me, riguarda tutti coloro che condividono assieme a me la sua scomparsa e il grandissimo affetto che abbiamo provato e proveremo per sempre nei suoi confronti. Mi è arrivata chiara la visione di tutti noi, amici, conoscenti e parenti, in cerchio a cantare assieme a lui. Come un atto psicomagico alla Jodorowski, per creare una ritualità in cui rielaborare insieme ciò che la sua presenza nel mondo ci ha lasciato e per ritrovarci in un luogo magico, terra di mezzo in cui potergli stare vicino e condividere con lui un canto pieno di amore, solidarietà e vicinanza.
Tutt’ora non so esprimere a parole cosa sia per me “Per Andrea, Per Sempre”, è stato e continua ad essere un insieme di cose: un modo per elaborare un lutto, la chiusura di un cerchio, una lettera d’amore, un seme di luce. Penso sia così che avrebbe voluto essere ricordato: in cammino in un’alba di inizio estate, tra i glicini in fiore, sotto al riverbero di un ponte e, probabilmente, con un fiore di campo dietro all’orecchio.

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