Voglio partire con una frase per niente seria o professionale per chi scrive di musica: a me Fabri Fibra, così, a pelle, sta simpatico. Questo per una serie di motivi che si possono riassumere con “perché sembra una persona normale che fa rap, e non un rapper e basta”. Cosa significa tutto questo? Provo a riassumerlo con un po’ di esempi: volente o nolente, Fibra nei suoi testi tocca tematiche e problematiche in cui si può ritrovare chiunque, perché veste come una persona normale e non come un cretino solo perché glielo dice uno stylist e soprattutto perché lui più di tutti rappresenta l’ideale del ragazzo di provincia che arriva nella capitale dei mitomani senza contatto con la realtà, ossia Milano. Non che tutto il rap debba essere così per essere apprezzabile (continuerò ad ascoltare Guè pure se non conosco metà dei brand che cita o non ho assaggiato ogni varietà di carne giapponese) ma raggiunti i 30 anni inizio a sentire (anche) una certa esigenza di qualcosa più coi piedi per terra.
Ora invece, ancora meno professionalmente, voglio negare quanto detto finora: a me Fabri Fibra, musicalmente parlando, sta un po’ sulle palle. Per carità, parliamo di un artista che ha almeno nella sua discografia tre classici del rap italiano (Sindrome di Fine Millennio, Turbe Giovanili e Mr. Simpatia), tuttavia, da un certo periodo del suo percorso sotto major, il signor Tarducci ha maturato almeno alcune caratteristiche fisse che ho sempre faticato a digerire, in primis la scelta di strumentali alquanto infelice, collegata spesso al piazzamento della solita hit da radio rap/dance, i pezzi a la Tranne Te per intenderci, tracce sicuramente di successo che hanno contribuito a sdoganare il rap in Italia a mo’ di cavallo di Troia, ma che col senno di poi mi sento di definire quantomeno invecchiate male.
Se a tutto questo ci aggiungiamo il che Fabri Fibra nei suoi testi ha quella che reputo una delle retoriche e autocelebrazioni più irritanti della scena (sì, gran parte dei pezzi del Fibra post Mr. Simpatia si possono riassumere in “Ho fatto questa cosa perché mi hanno pagato, a voi no” oppure “In Italia sono tutti scemi, ve lo dico io che sono più sveglio”) vien da sé che vivo l’annuncio di ogni suo album con sentimenti contrastanti.
Effettivamente quando ho iniziato l’ascolto di Caos la sensazione di trovarsi di fronte al “solito” disco di Fabri Fibra era parecchio evidente, nonostante non si parli di brutti pezzi. Propaganda o Stelle saranno sicuramente delle tracce orecchiabili che serviranno a scalare le classifiche, ma rappresentano una formula a cui eravamo già abituati.
È nella seconda metà dell’album che il ritmo cambia, e si inizia forse a intuire cos’è questo Caos a cui si fa riferimento: da Cocaine in poi, quello che sentiamo è forse il Fibra più intimo e onesto che si sia mai sentito nell’ultimo periodo, un Fibra che ammette candidamente di aver fatto degli errori (cosa rara in un genere basato sull’autocelebrazione), che se ne frega dei cliché, che fa l’outro senza ritornelli e con i ringraziamenti anche se non si usa più perché a lui piace così, che rifiuta una musica e un mondo schiavi dei social e dell’immagine.
Tutto tremendamente sincero e che suona soprattutto vero, come dovrebbe essere ogni rapper.
Forse è questo quindi il Caos di Fabri Fibra, un rapper in bilico tra il dare al pubblico quello che si aspetta già e il fare invece il rap come lo vorrebbe lui a modo suo. E la speranza è che questo suo caos venga risolto in questa seconda direzione.
