Essere un producer al giorno d’oggi significa (anche) essere in continua competizione con gli altri artisti in una gara a chi macina più streaming, combattendo quotidianamente contro gli algoritmi di Spotify per sopravvivere nell’oscuro e tortuoso mondo della piattaforma streaming.
E se già non è facile emergere, ancora più difficile è restare sulla cresta dell’onda, conquistare i trend setter curatori di playlist, gli editori, confermare gli ascolti, i cuori, i like e i numeri, quei maledetti numeri su cui oggi basiamo le nostre vite.
C’è poi chi, alla faccia dei numeri, decide di cambiare le carte in tavola e dare un nuovo volto ad un progetto che, stando agli ascolti, poteva tranquillamente continuare a percorrere una vita già battuta e sicura. È questo il caso di addict. & Rewind, produttori milanese il primo e tarantino il secondo, che mettono in discussione il loro percorso intrapreso fino ad oggi nel sottobosco lo-fi/pop (che conta più di 9 milioni di streaming solamente su Spotify, 160k su Apple Music e 250k su Soundcloud), per esplorare suoni decisamente più pop, ampliando i confini per rimettersi in gioco, per trovare nuovi stimoli e nuove fonti di ispirazione, mettendosi alla prova con lo scopo di creare qualcosa di nuovo, perchè, come ci dicono, “non ci piace rimanere appollaiati su uno stile musicale, ma amiamo fondere stili, creare nuove sonorità che possano sempre darci l’input per gettarci in nuove sfide, nuovi suoni, nuovi colori”
A inizio mese è stato pubblicato “Wish I could call you mine” è il nuovo EP di Addict. e Rewind disponibile per Stage One, distribuito da Stage One e The Orchard. Molti dei brani nati da questa collaborazione sono stati inseriti in un gran numero di playlist: Have you ever been in love? è stata recentemente aggiunta alla playlist Lo-fi Indie di Spotify e selezionata da the bootleg boy, uno dei contenitori di brani lo-fi/pop più importanti del genere e che conta quasi quattro milioni e mezzo di iscritti, a riprova del fatto che quello di Addict. e Rewind sia un sound a tutti gli effetti internazionale.
Abbiamo incontrato i due producers e ci siamo fatti raccontare di più sul loro mondo musicale e sul perchè delle loro scelte stilistiche
Ciao ragazzi! Perché la decisione di abbandonare i beat lo-fi per suoni più pop?
La decisione è nata per una questione di profonda esigenza artistica. Noi, come persone e come artisti siamo molto diversi e questo si riflette anche nelle nostre produzioni, nella nostra arte. Non ci piace rimanere appollaiati su uno stile musicale, ma amiamo fondere stili, creare nuove sonorità che possano sempre darci l’input per gettarci in nuove sfide, nuovi suoni, nuovi colori. La musica lo-fi ormai era diventata il nostro genere di punta, abbiamo accumulato complessivamente più di 30 milioni di streaming ma volevamo di più; eravamo molto sicuri del nostro stile e questo ci ha portato proprio a volerlo cambiare, come quando sai giocare così bene ad un gioco che dopo un po’ finisce per annoiarti. Devi cambiare gioco, devi aumentare il livello di difficoltà, pensiamo che questo sia alla base dell’arte e della musica.
Che ne sarà dei “vecchi” ascoltatori?
I vecchi ascoltatori si abitueranno al cambio di stile, se lo sono davvero. Portare un nuovo genere ce ne farà perdere alcuni, trovarne di altri, ma è anche questo il game. Ci saranno sempre quelli affezionati, quelli più fedeli, ma ormai la musica sta diventando sempre più liquida e il perdere ascoltatori e guadagnarne di altri è una cosa all’ordine del giorno. Poi nella vita non si può mai sapere a cosa si è destinati, quindi (per fortuna o per sfortuna) non ci poniamo limiti.
A chi vi rifate nel momento della produzione?
Le nostre produzioni raramente hanno un artista nello specifico a cui ci rifacciamo. Per lo più ci piace farci ispirare dalle cose che ci accadono, da un film, da un paesaggio. Ovviamente, oltre che musicisti siamo fan di alcuni artisti come FKJ, FINNEAS, Jeremy Zucker (con i quali ci piacerebbe collaborare, ovviamente) e altri che vagano nella sfera Indie, Chill ed Indie-pop.
Perché la scelta di dare un ruolo centrale nelle produzioni all’ukulele?
Abbiamo scelto l’ukulele perché, considerato il mood dell’EP, potevamo dare diversi gradi di intensità, diverse sfumature, sia leggere ed estive, sia malinconiche e tristi. Il tutto dipende da come viene suonato, dalla carica e dall’emozione che riesci a esprimere attraverso lo strumento.
L’EP appunto parla di un amore tanto travolgente quanto triste, che non riesce a sbocciare e l’Ukulele era perfetto per poter dare entrambi i colori.
Poi in generale ci piace sperimentare, utilizzare diversi strumenti e imparare a suonarne di nuovi: è la scintilla che accende la nostra creatività.
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