Altre di B, a scuola di musica dagli street artist bolognesi

La band bolognese Altre di B ha immortalato alla perfezione l’asse musica-street art realizzando un’intervista doppia in esclusiva per Save The Tape a Mannaggia e Resko, esponenti della nuova e vecchia scuola di writers felsinei.

Altre di B è il suggestivo nome che quattro ragazzi bolognesi, ormai più di una decade fa, hanno deciso di dare alla propria band, in omaggio alla schedina del Totocalcio e al teletext. Nel lasso di tempo che li ha portati al presente, oltre ad esaltare il concetto di band indie (, regalando sempre ai propri fan un’attitudine punk, un’immediatezza ed un’energia uniche nel loro genere, sono riusciti a fare cose davvero fiche come, ad esempio, coinvolgere l’ex portiere Dino Zoff a presenziare , essere ospitati diverse volte dalla trasmissione , oltre che presenziare ad X Factor nel 2015.

Dopo la pubblicazione di tre dischi (There’s a Million Better Bands, 2012, Sport, 2014 e Miranda!, 2017) Altre di B sono tornati lo scorso febbraio con Diagram / Peacock, un doppio singolo dalle sonorità jangle pop e twee, seguito da un’altra coppia di singoli, “Green Tea Tiramisù / It’s So Cool”, che ci riporta invece alle derive più indie-rock del quartetto, con le chitarre assolute protagoniste, il ritmo incalzante e un sound che più schietto di così non si può.

É proprio con l’uscita di questo nuovo capitolo della band (pubblicato per Costello’s Records/We Were Never Being Boring) che è chiaro che oltre alla musica e allo sport, le Altre di B hanno sicuramente almeno un’altra grande passione: la street art. Ciò non solo è evidente per le copertine dei nuovi brani brani, realizzate da Mannaggia (esponente della nuova scena di street-artists bolognesi), ma è assolutamente palese anche per quanto i muri (e non solo) di Bologna abbiano ispirato ed influenzato l’intera composizione delle nuove tracce, come loro stessi hanno ammesso: “Tutto è comunicazione. Un’insegna luminosa, una polaroid, un incendio, un dito medio, il silenzio e il colore delle regioni su un grafico del sito internet di fiducia. E se tutto è comunicazione significa che tutto comunica la presenza di qualcosa, lì e ora. Gli stati d’animo, le informazioni, un punto di ristoro, oppure un evento. In questo gioco l’arte di strada è al contempo informazione e presenza, alla maniera della musica: fatta per essere nel mondo ed essere cancellata, migliorata, tramandata. Questa è la ragione soggiacente al nostro ultimo lavoro, l’ispirazione dell’ambiente circostante e la sua messa in musica.
Per questa ragione, non potevamo perdere l’occasione di esplorare insieme a loro questo mondo da vicino, tra controcultura, genialità e immediatezza, la stessa che i ragazzi sprigionano nelle loro canzoni. Siamo quindi felici di presentare in esclusiva per Save The Tape un’intervista realizzata dalle Altre di B alla nuova e vecchia guardia della street art bolognese, qui in tutto il suo splendore rappresentate da Mannaggia (l’autore delle nuove copertine del gruppo) e Resko, che nell’ambiente non ha certo bisogno di presentazioni).

Succede di sfuggita. E poi torno indietro e dico no dai bellissimo. Succede che una volta vedo un disegno su un muro di Bologna. Certo, ne è piena la città e oramai ci ho fatto l’abitudine, tipo il rumore del frigo, quello del traffico e altre cose alle quali il mio sistema nervoso si è adattato fino a farle scomparire. Questo però è diverso dagli altri disegni perché è visibile il suono che fa. Non è nient’altro che un pallone da basket che colpisce il ferro del canestro e di fianco la scritta MANNAGGIA. Oltre a essere un’imprecazione regionale, MANNAGGIA è anche un artista che soffia nel sassofono delle migliori band di Bologna, che disegna e abbozza speditamente, come prendesse appunti sotto la banchina della stazione, come se gli fosse appena venuta un’idea e poco prima che ne arrivi un’altra. MANNAGGIA è l’ultimo arrivato di una nuova generazione di artisti e lo abbiamo posto al fianco di Resko, rappresentante della vecchia guardia di writers made in BO. Un ponte temporale e artistico fra due visioni di Bologna, il suo tessuto urbano, la sua erudizione e le sue eterne dicotomie.

Chi è Mannaggia? Chi è Resko?

M: Mannaggia è un personaggio in fieri, abbozzato e secondario. Gli piace suonare, fumare le sigarette, a volte fa dei disegnini e dei tatuaggi, ma non sono niente di che.

R: Resko è un insieme di lettere prese un po’ a caso una ventina d’anni fa, all’epoca le trovavo belle piene e bilanciate. Questo è il cosa, in effetti. Il chi, Resko è un alter ego che col tempo ha un preso sempre più peso e importanza, un lato di me libero ma sempre sotto pressione a provare per fare meglio.

A Bologna esiste ancora un concetto di sottocultura in contrapposizione al conservatorismo dell’upper class? 

M: Le sottoculture esistono a posteriori, quando ci punti il dito per circoscriverle, nel bene e nel male. Prima, ma anche durante e dopo, esistono persone o gruppi di persone che si coagulano, si vogliono bene, o magari si conoscono appena e si sfiorano soltanto, ma in qualche modo i loro sforzi e le loro azioni riescono a impastarsi. Che si tratti di situazioni più orchestrate oppure di accozzaglie disorganizzate, questo microcosmo di gesti, mani, personaggi, esiste e ogni tanto riesce a funzionare bene. Le formiche non si estingueranno mai, non importa quante disinfestazioni uno si metta in testa di fare, mi piace pensare che certe cose non possano essere debellate, gentrificate, riverniciate. In un certo senso esiste una sola grande sottocultura, che è la sommatoria dei gesti di tutti coloro che, da soli o assieme, riescono ad affermare la propria presenza senza paura di farsi calpestare. Bologna è un gran bel formicaio.

R: A mio modo di vedere Bologna è sempre stata un perfetto controsenso, da qualunque parte la si guardi e la si viva ha sempre offerto e probabilmente ancora offre tutto e il contrario di tutto. Gli ultimi sette anni li ho vissuti in altre parti e non sono così aggiornato sulla realtà attuale, ma in città si è sempre respirata un’aria permissiva, che se ne dica e che i nostalgici ricordino ancora il tempo dei centri sociali come uno dei più belli, a Bologna se vuoi puoi ancora fare tutta la sottocultura che vuoi. Non penso che in passato nessuno abbia mai incoraggiato ad andare fuori dagli schemi o ad esprimersi in maniere diverse rispetto a ciò che era già presente. Forse le persone ora hanno meno fotta e slancio nell’osare ma son convinto non sia cambiato molto dal punto di vista delle possibilità. le opportunità sono ancora tante e basta averne voglia e passione.

Esiste una connotazione politica all’interno della tua arte, o è un graffitismo apolitico? 

M: Premetto che arte è una parola grossa, ho un po’ paura di fare il professionista. Mi piace rivendicarmi il dilettantismo, questo sì. Credo che sia importante fare le cose soprattutto quando non sei un esperto, e che questo in sé sia già un atto politico. Ed è importante soprattutto riconoscere un certo peso politico in molto di quello che si fa, dai gesti più consueti e le chiacchiere da bar alle scelte più importanti della propria vita. Questa secondo me è una forma di attivismo implicito che può essere un’importante linfa vitale per noi e per i frutti delle nostre azioni. L’attivismo più esplicito è altrettanto necessario, anche se quando mi metto a scrivere o disegnare o suonare non è la prima cosa che mi salta in mente. Però partecipo abbastanza spesso a iniziative politiche, in senso stretto o in senso lato, e ogni tanto una falce&martello con l’indelebile la disegno, un po’ per scherzo un po’ no.

R: Penso che i graffiti siano completamente apolitici, questo perché il messaggio non c’è e non esiste, è puramente significante, forma e stile. Alla base ci sono le lettere ma spesso sono solo nickname senza significato, ci sono dietro ragazzi di tutte le età che fanno parte di un movimento connesso a livello mondiale. Qualsiasi persona riesce a distinguere un messaggio politico da un graffito o una tag, le quali spesso ai più sono illeggibili ed etichettate come scarabocchi. Un “Renzi merda” lo legge anche uno scolaro delle elementari.

Cosa conosci della tradizione bolognese di street artist e di crew?

M: Onestamente non molto, il mondo dei graffiti mi ha sempre affascinato ma non ne ho mai fatto parte in prima persona. Conosco la Staveco, che è uno dei posti più belli di Bologna, ogni tanto ci vado a vedere i murales che si intrecciano con i rampicanti e gli edifici fatiscenti. In particolare c’è una murata che mi piace molto, di Dielis, in cui una specie di batterio verdognolo si spalma sulla parete incorniciata dalle erbacce e dalle intelaiature di metallo arrugginito che una volta sorreggevano un tetto, ora sono in pensione. Poi sparsi sui muri di tutta via Riva di Reno ci sono degli insetti che un po’ sembrano api un po’ farfalle, tutti sorridenti, ogni volta che passo da lì li guardo e mi fanno sorridere, mi piacerebbe sapere chi li ha fatti.

R: Io faccio parte delle ultime generazioni di writer, Bologna è stata una delle prime città attive a livello italiano per cui ci sono persone che hanno iniziato negli anni ‘80. I primi nomi che mi vengono in mente sono Deemo e Rusty, a seguire tutti gli altri. Avendo iniziato nei primi anni 2000 ho comunque sentito e mi son informato della storia graffiti di Bologna, molti sono attivi ancora oggi e le storie continuano ad essere tramandate direttamente da loro. A volte ci sono leggende o storie ingrossate ma molto spesso la documentazione fotografica testimonia qualcosa di reale e concreto difficilmente confutabile. Oggi poi con internet ci sono parecchi vecchietti che si sono messi a scrivere ed hanno aperto gli archivi tenuti ben custoditi tutti questi anni. Chi vuole informarsi ora lo può fare facilmente e direttamente leggendo persone che militavano quando le cose succedevano. Poi bologna è una città piccola e più o meno ci conosciamo tutti.

Come ti sei avvicinato all’arte di strada?

M: Mi ci sono avvicinato di soppiatto, alle spalle, non voglio disturbarla. Di solito osservo in silenzio e basta così, sono un po’ timido. La mia famiglia pure loro sono un po’ timidi, ed è una cosa che apprezzo, e tutti loro sono un po’ artisti ma nessun professionista, per fortuna.

R: Ho iniziato per caso grazie a un compagno di scuola che dopo essersi beccato una denuncia decise gentilmente di passarmi tutto il materiale che aveva, spray, fanze markers, eccetera, e nello stesso tempo di spiegarmi due cose. In realtà mi ha solo aperto gli occhi su ciò che avevo avuto davanti ogni giorno, le tag e i pezzi ci sono sempre stati semplicemente non ci facevo caso. La mia famiglia non la prese bene all’inizio, ma poi come spesso succede ci fecero l’abitudine. Non sono mai stato uno molto attivo, ho sempre dipinto quanto e quando mi andava, mi stanco spesso delle mie passioni e questa ho provato a centellinarla sin da subito.

I muri di Bologna sono una costellazione di dichiarazioni d’intenti. Come nasce la tua idea di graffitismo?

M: Nella città in cui vivevo prima di arrivare a Bologna un po’ di anni fa sono apparse dappertutto delle scritte sui muri, fatte in bianco col pennello, che dicono il signore Gesù sta arrivando (oppure lord Jesus is coming very soon – a volte puoi trovare entrambe le versioni una accanto all’altra). Le ha fatte tutte la stessa persona, la grafia è la stessa. Sotto una di queste scritte qualcuno ha aggiunto: butta la pasta. Mi sembra una buona dichiarazione di intenti. Vorrei una città che tu cammini per strada e i muri ti fanno sorridere.

R: Sì, a Bologna ci sono una miriade di scritte e pitture di ogni genere. I graffiti pur essendo una sottocultura ha delle regole abbastanza marcate, nasce illegale e per molti muore illegale. Se non fai lettere non sei un writer, se fai solo muri non sei un writer. A me di queste regole non scritte non mi è mai importato, ho sempre fatto un po’ di tutto e come mi sentivo. Sin dall’inizio son stato molto spesso sull’orlo di queste etichettature, provando a metterci un po’ del mio e andando un minimo controcorrente in una cultura che di per sé è sovversiva. Il solo gesto di scrivere su una superficie se la vogliamo vederla filosoficamente è un appropriarsi senza permesso di ciò che non è tuo, se poi scrivi il tuo nome su quella superficie allora l’impatto è ancora più grande e potente. La mia idea di graffitismo rimane comunque nei canoni del rispetto del contesto.

Quant’è importante l’anonimato e il concetto di alter ego?

M: L’anonimato è un diritto, esattamente come l’avere un’identità. Bisognerebbe poter esercitare questi due diritti liberamente, intercambiabilmente, spontaneamente, mentre spesso ci si ritrova purtroppo ad essere identificati a forza o ridotti senza consenso all’anonimato. L’adozione e l’utilizzo di uno o più alter ego d’altro canto possono essere una buona via di fuga da questa dicotomia, un bel modo per scendere a patti con se stessi o esplorarsi e sparpagliarsi.

R: A mio parere importantissimo, mi è sempre piaciuto che la scritta parli per se stessa, che l alter ego sia un doppio binario usato come veicolo per fare altro, mi dà modo di sbagliare senza subirne le conseguenza. Nome e cognome oggigiorno sono come dei biglietti da visita, ci sono un sacco di informazioni dietro ciò che scriviamo, filmiamo, fotografiamo. Prendersi un piano b da tutto ciò mi dà molta libertà.
Liberato o Elena Ferrante l’han capito.  

Quali sono i luoghi di elezione che preferisci dipingere?

M: Sicuramente le piastrelle dei muri della casa in cui abito, che sono un po’ la summa di tutti i trascorsi di questo luogo e delle esperienze di chi l’ha attraversato. Poi i cessi dei bar o delle aule studio o degli autogrill, che quando stai lì a fare i bisogni mica c’hai sempre appresso le parole crociate o un libro come se fossi a casa tua, ed è bene che tu ti possa intrattenere in qualche modo, è un servizio alla comunità.

R: Senza ombra di dubbio i lungolinea, i muri che vedi dal finestrino del treno. Sono i classici non luoghi dove nessuno sta ma dove tutti passano, perfetti per essere letti, silenziosi e affascinanti, nascosti ma ipervisibili. Bologna è un punto dove tutte le direzioni confluiscono per poi riallargarsi, tutte le linee passano di qua. Tendo a cambiare spesso stile provando a sperimentare, ma in lungolinea lo stampatello e la leggibilità hanno la meglio. È un calibrare a che velocità passa il treno e la distanza dai binari. Più veloce uguale più grande e lettere più staccate. Ma la regola non sempre vale e spesso si va sul grosso a qualunque costo.

Hai mai dipinto fuori dai confini di Bologna?

M: Sì, ad esempio una volta ho dato il bianco nel bagno di un teatro a Moncalieri, provincia di Torino.

R: Poco e male purtroppo, quando sono in altre città preferisco sempre assorbirne le novità, ricevere input più che darne. Mi è capitato di dipingere all’estero e in giro per l’Italia ma l ho sempre vista un po’ come un dovere e non un piacere per cui non ho mai insistito con me stesso più di tanto.

Qual è il pericolo più grande che hai corso mentre dipingevi?

M: Non ho mai fatto nulla di particolarmente spericolato, sono abbastanza pigro, quindi il pericolo maggiore sono le nostre amate forze dell’ordine che sempre ci proteggono e vegliano su di noi.

R: …

Qual è lo spazio più singolare che hai pitturato?

M: Non ho mai realizzato grossi lavori, non mi considero nemmeno uno street artist. Forse il posto più particolare in cui ho scritto e scarabocchiato è una pista per il collaudo delle automobili FIAT ormai abbandonata da anni, un luogo fantastico a cui sono molto legato, uno spazio enorme e ormai completamente inutile di cui davvero poche persone conoscono l’esistenza.

R: C’era un periodo che chiudevano l’autostrada per andare a Firenze una volta ogni due settimane il sabato sera. Una volta andammo con altri 4 a dipingere i pannelli antirumore che costeggiano le carreggiate. In realtà probabilmente non è niente di particolare però in questa atmosfera post nucleare da mondo distrutto dove l’autostrada era sgombra e riuscivi a vedere per chilometri, ci ritrovammo dopo aver fatto i nostri blocconi a scrivere per terra sull’asfalto delle corsie vuote, a fumare e a berci delle birre. Non c’era assolutamente nulla, ma come spesso succede nella semplicità c’era tanta bellezza.

La scorsa estate ho partecipato alla mostra di Banksy a Ferrara.
Mi sono più volte domandato: qual è il confine fra vandalismo e arte?

M: Premetto che non sono mai stato un grande amante di Banksy, sia come artista sia come personaggio. Riconosco però il suo indisputabile peso nell’aver portato al cospetto di molti più occhi un determinato modo di fare arte, con tutte le contraddizioni apparenti o vere che questo si porta dietro. La più evidente di queste contraddizioni è la legittimazione solo minima e parziale dei graffiti e dell’arte di strada, che avviene (quasi) solo quando questo tipo di arte può essere venduta, monetizzata, altrimenti sei solo un vandalo. I confini tra artista e teppista spesso li decidono il mercato dell’arte o le varie istituzioni che puntano il dito inneggiando al decoro.
C’è un double standard ridicolo e incoerente. Se nel paleolitico ci fosse stata questa smania per il decoro probabilmente non avremmo le pitture rupestri, che sono una chiara forma di pericoloso vandalismo.

R: Qualcuno disse è arte tutto ciò che viene considerata arte in un determinato periodo storico. Probabilmente una delle definizioni più azzeccate, tutto e niente. Penso che il confine tra vandalismo e arte sia netto, ma probabilmente siamo in un periodo storico particolare e molta roba scadente viene elevata ad arte. Negli ultimi anni son nate tantissime gallerie che promuovono street artist o writers o simili. In realtà già a New York era successo dopo pochi anni dell’arrivo dei graffiti in strada per cui non è niente di nuovo e c’è sempre stata la commercializzazione del graffito. Semplicemente si è alzata l’asticella di tolleranza e nel calderone ora c’è anche il vandalismo.
Domani chissà.

A questo proposito che pensiero hai rispetto all’insurrezione di Blu nel 2016?

M: Il caso di Blu, artista fantastico e prezioso, è emblematico di quello che ho appena detto. Alcuni dei punti di forza della street art sono le sue radici necessariamente popolari, la sua fruibilità gratuita, la sua natura randagia e indomabile, la sua proliferazione spontanea e anarchica, senza bisogno di regole, campionati e quotazioni di mercato. Strappare un’opera di street art dal suo contesto, fisico e concettuale, per monetizzarci sopra equivale ad ucciderla ed esporre il suo cadavere alla pubblica gogna, facendo pure pagare il biglietto. Quindi a fronte di questa minaccia è preferibile darsi una sepoltura dignitosa, come ha fatto Blu cancellando le sue opere, anche se è una soluzione drastica che lascia molto amaro in bocca.

R: Beh, Blu è sempre stato coerente, è lo ha fatto anche quella volta.
Il fatto di staccare pezzi di muro dipinti per poi venderli senza consenso penso sia quanto di più irrispettoso ci possa essere. Restando alle rigide regole dei graffiti Blu non è considerato un writer, almeno da me, ma un geniale pittore impegnato politicamente e socialmente. Penso che la sua sia stata una risposta contro un modo di fare e di vivere diametralmente opposto al suo combattuto in un solo modo possibile, ossia la cancellazione di tutto ciò rapinabile.


Pubblicato

in

da

Tag: