Il riflesso delle stelle sul mare di Napoli ispira ancora una volta Pellegrino: Morphé, il nuovo LP pubblicato per Early Sounds Recordings, è un’ode alla città partenopea vista dal Vesuvio.
Le stelle e i loro riflessi sul mare sono tracce mutevoli, forme sensibili a cui appartiene la dote dell’irrequietezza. Il loro bagliore riflesso sul mare ha ispirato Pellegrino che, dopo l’omonimo LP del 2018, ha fotografato Napoli dalle pendici del Vesuvio e le ha reso omaggio con il nuovo album Morphé.
Insieme alla Zodyaco Band, il produttore napoletano ha sviluppato un suono che adesso è sempre più specchio di un’identità: “Neapolitan melodic disco from the slopes of Vesuvius”. Una musica al confine tra la notte e il giorno, tra la luce e l’ombra, stretta tra la frenesia della città ed il rassicurante silenzio del mare, che viaggia con gli astri come sfondo per illuminare le proprie profondità interiori. Suoni che in Morphé rimbalzano sulle strade, che a loro volta ne amplificano la voce, portando con sé altri colori.
Abbiamo scambiato due chiacchiere con il produttore e parlato del nuovo disco Morphé, della sua etichetta e della sua -ora anche un po’ nostra- Napoli. Come è già successo (con i Nu Guinea e con Napoli Segreta) le produzioni jazz e funk italiane di fine anni ’70 sono la fonte d’ispirazione anche per questo lavoro e diventano il filo conduttore con i lavori già pubblicati. Possiamo parlare di scena napoliterranea per riassumere l’immaginario di Morphé e, più ampiamente, di Early Sounds Recordings?
Mi piace molto la definizione di napoliterraneità, credo che quel suono sia radicato nel DNA musicale di chiunque sia nato qui e sia cresciuto tra gli ’80 ed i ’90, almeno per me è così. Probabilmente è una normale e progressiva evoluzione personale che si applica anche alla musica, una progressiva presa di coscienza delle proprie radici. Ma non c’è solo Napoli in Morphé, c’è un po’ tutto un bagaglio di ascolti e suoni tipici di altri mondi musicali che poi rimangono in qualche cassetto e si palesano nella stesura di un brano.
Non solo funky e jazz mediterraneo, come dici te credo che in Morphé giochino un ruolo centrale anche le contaminazioni afro e tribal. Quanto è stato lungo e complesso il processo di ricerca? Quanti mercatini delle pulci, quanto diggin’, quanti confronti?
Le influenze sono parte integrante di un percorso ma credo che seppur simili alla fine siano espresse e filtrate in maniera differente e soggettiva, amalgamandole con un vissuto ed una proposta che poi conferisce una certa personalità e sound ad un progetto, cioè i contenuti. In fondo è ciò che succede da sempre nella musica, si rielabora e ricerca nel solco di ciò che ci ha formato e che ci piace che a sua volta è stato prodotto seguendo la stessa logica. Il risultato è una continua metamorfosi sonora che resta però fedele al proprio pregresso.
C’è un aneddoto legato alla creazione di Morphé che ti fa piacere ricordare e che vuoi condividere con noi?
Non amo ascoltare molta musica nel mentre costruisco un disco, direi che il momento nel quale faccio incetta di ascolti è quello antecedente e successivo alle registrazioni. Confronti invece tantissimi, principalmente con Dario Bassolino che ha suonato le tastiere nel disco e composto assieme a me le musiche, così come con gli altri musicisti che hanno suonato con noi. Se ti dovessi citare un singolo aneddoto invece ti direi quella nottata tra un venerdì ed un sabato in studio da me a Berlino. Eravamo in studio fin dal primo pomeriggio (che è in uno spazio condiviso con il mitico club Sameheads) ma senza grandi risultati, una di quelle giornate di fiacca che possono capitare. Verso sera il club comincia ad animarsi e ci lasciamo trasportare dal flusso del party piuttosto che indugiare fiaccamente in studio. Dopo un po’ torniamo e restiamo fino alle 10 del mattino a buttare giù quella che poi è diventata Tanta Gente.
C’era bisogno di energia!

Questo disco è un viaggio dalle pendici del Vesuvio al golfo di Pozzuoli insieme alla Zodyaco band, l’ensemble di artisti (tra cui le new entry Gaetano e LNDFK) che ti ha affiancato nella produzione del disco. Come nasce l’idea di creare questa realtà in continua evoluzione, in cui i ruoli non sono definiti, in cui si entra e si esce?
Zodyaco è una piattaforma che ho fondato poco più di due anni fa con l’intento di uscire dalle logiche più classiche che definiscono lo “studio producer” ed avvicinarmi a forme compositive ed espressive più vicine alle mie radici ed influenze e quindi in definitiva un progetto “open band” nel quale orbitino vari musicisti della scena Partenopea e Campana con i quali collaboro. Dietro c’era e c’è l’idea di creare un ensemble nel quale mi potessi ritagliare una figura più vicina ad un art director e produttore “vecchia maniera” per poter indirizzare i vari progetti discografici secondo quella che è una mia personale visione musicale ed estetica, anche nell’ottica di costruzione di una scena locale attraverso il contributo della mia etichetta Early Sounds Recordings. Anche se poi il coinvolgimento è sempre vario, dinamico e su più fronti, in questo disco per esempio per la prima volta canto anche dei brani e scrivo tutti i testi oltre a produrre (insieme a Dario Bassolino), l’idea è sempre quella di dirigere in un determinato modo il flusso musicale e le scelte da intraprendere per comporre quel puzzle che è un album.
Ascoltando il disco sembra che sia Napoli stessa a suonare e cantare: del resto è una città che ha sempre vissuto di musica, di arte, di etichette, etichettine, sottoetichette e sottoetichettine, in cui anche la più anonima delle cantanti poteva (e può) essere la star del quartiere.
Perché i neomelodici a Napoli vendono e hanno sempre venduto più di chiunque altro?
Credo perché, un po’ come per qualsiasi forma espressiva popolare, rappresentano una realtà e dei sentimenti nei quali la gente si riconosce, e poi parlano la loro lingua.
Quanto poteva essere rischioso fotografare la città da un’angolatura già sfruttata, (ri)parlando di qualcosa già raccontato e rischiando di diventare una copia di qualcosa di già sentito?
In realtà già dalla cover l’intenzione era proprio l’opposto, cioè offrire un punto di vista alternativo alla solita cartolina di Napoli, con il suo golfo e Vesuvio sullo sfondo. La cover del disco cerca di raccontare la Napoli vista dal Vesuvio non viceversa. Poi al di là dell’estetica visuale c’è quella sonora e quella testuale, che sono ovviamente il frutto di una ricerca, dell’espressione di una visione che è personale ed individuale.
Insomma ciò che racconto nei miei testi è la somma di esperienze soggettive ed il desiderio di condividerle è la base dell’esigenza espressiva dietro qualunque lavoro.

Quale tra le storie della Napoli raccontata in Morphé è la tua preferita?
Ha un significato particolare?
Come anticipato prima il concept del disco, legato a Napoli appunto, è importante tanto quanto la musica essendo quest’ultima parte di un “tutto”, non è un fattore legato ad un elemento in particolare, è un insieme di tasselli che compongono il mosaico dell’album. La maggior parte dei testi sono nati in maniera spontanea in studio…
Se tra tutti dovessi sceglierne uno in particolare ti direi Tanta Gente: è un brano istintivo sia nell’arrangiamento che nel testo, nasce da un’immagine tipica per chiunque abbia vissuto in città (ma credo appartenga a chiunque viva una metropoli), lo spunto per raccontare il disagio è il traffico, il mood che pervade è quella frustrazione generale mista a rabbia per qualcosa che sapevamo sarebbe successa eppure non abbiamo fatto nulla per evitarla. È un brano provocatorio dove il disincanto si esprime con quel “E vai vai” iniziale e si conclude nel coro “Napule e mo? Napule no! Napule, Napule, mo Napule è buona?” che diventa un grido quasi liberatorio, della serie “Facciamoci prendere in giro finché ci torna utile…“

Morphè riassume la metamorfosi sonora ed estetica di un nuovo percorso, un passo in più che lascia il golfo partenopeo a metà tra luce e ombra, tra giorno e notte, proprio come viene rappresentato nell’artwork: quanto hanno ispirato la produzione gli scenari contrastanti della città, ora intrappolata nel frenetico via-vai delle sue vie, ora rilassata mentre le onde si infrangono sul litorale?
Sono il fulcro dell’album, va da sé. Come notavi in Morphé ho cercato di descrivere un contesto duplice e contrapposto alla classica cartolina, il disco è dedicato a Napoli ma vista dal Vesuvio, simbolo della città, che però stavolta non è scenario ma palcoscenico e racconta una storia da due punti di vista differenti, così come lo sono il sole e la luna, la luce e l’oscurità della copertina. Un lato del disco è più sentimentale ed emotivo seppur malinconico, l’altro invece esprime un disagio generale, sia esso metropolitano, esistenziale o umano.
Mi viene difficile indicare il contesto in cui inserire il tuo/vostro progetto: a scatola chiusa sarebbe stato facile pensare all’ambito del clubbing, ma episodi come la presenza dei Nu Guinea al MiAmi Festival (annullato, vero, ma pur sempre roccaforte del popolo indie) piuttosto che il dj set di Napoli Segreta al Locus Festival mi rende difficile una vostra “catalogazione”. Questo perché i suoni di Napoli si rinnovano e si adattano alla situazione più di ogni altro filone musicale?
La musica è un’entità fluida che attraverso la continua evoluzione ed i vari cambi generazionali ha visto la nascita di tendenze, mode e flussi che continuamente sono mutati e rigenerati. Tolstoj ragiona su alcuni di questi punti in “Cos’è l’arte” dove, semplificando, l’analisi della comunicazione creativa ed artistica viene risolta nella comprensibilità della stessa, insomma se “arriva” allora è genuina, che poi in fin dei conti è tutto ciò che conta. Ecco, da artista napoletano forse posso dirti che la chiave è questa genuinità appunto, che nei vari progetti resta immutata.
Abbiamo parlato tanto di Napoli, città sempre viva e mai buia, con la luna e le stelle che illuminano anche gli angoli più nascosti e la fanno brillare come se fosse giorno. C’è una Napoli che resta ancora segreta e sconosciuta che racconterete in futuro?
Non credo ci sia ancora tanto da scoprire, il meglio è già stato ampiamente saccheggiato [ride, ndr].