Tra psicofarmaci e disturbi mentali: POP DISEASE è un disco impegnato anche sotto il punto di vista socio-politico. eego ci ha raccontato il suo ultimo album, un viaggio sospeso tra il glitch-pop e la lo-fi house.
POP DISEASE, il nuovo album di eego (doubledouble.net – 2020) è un disco ambizioso, difficile, a cui dover prestare attenzione.
Non è pop nel senso comune del termine ma, sempre considerando il senso comune del temine, non è nemmeno sperimentale.
I brani seguono spesso la forma canzone più canonica, con dei suoni molto british su cui si alternano le voci di Arua e Anna (oltre che quella di eego stesso), spesso disumanizzate e sopraffatte dagli effetti.
Il punto di forza di POP DISEASE resta la varietà di atmosfere, dal glitch-pop alla lo-fi house, dall’avant hip-hop al piano rhodes della conclusiva “HER VEINS“.
POP DISEASE è un disco curato tanto nei suoni quanto nei testi: 10 canzoni (o meglio 8, visto che due brani sono strumentali) che parlano dei malesseri comuni a tutti noi e, proprio per questo, sempre più popolari.
Ci siamo fatti raccontare questo album da eego stesso.
Producer, songwriter, direttore artistico, calabrese trapiantato a Milano. Antonio Castellano è tutto questo e molto altro?
Invece chi è eego?
Antonio è tutto questo, una persona che ha fatto di tutto per fare della creatività (nelle sue molte forme) il proprio lavoro e sappiamo che in Italia non è facile. Io sono fortunato perché – inutile girarci intorno ed essere ipocriti – i lavori creativi in Italia nel 90% dei casi li fai se la tua famiglia si può permettere di pagare scuole da 8.000€ all’anno ed aiutarti durante gli anni di stage a 400€ al mese, altrimenti vai a trovarti un lavoro vero…
eego invece è Antonio 15 anni fa. Quando avevo tutto il tempo del mondo per fare musica ma ero troppo timido per farla ascoltare a qualcuno.
È stato così fino al 2013-2014 credo, quando avevo già 26 anni, poi ho cominciato a sentirmi troppo vecchio per fare musica, in generale non mi sono mai sentito apposto con la parte esibizionista del musicista.
Per me suonare è qualcosa di intimo.
POP DISEASE è in realtà un lavoro con suoni poco pop e con molte sperimentazioni a metà tra il glitch-pop e la lo-fi.
Qual è stato il percorso che ha portato alla sua realizzazione e qual è l’idea di sfondo nel processo creativo?
Sono cresciuto a pane, Tool, Blonde Redhead e Morr Music.
Credo che POP DISEASE sia un po’ la somma di queste sonorità. La mia timidezza poi fa fermentare i brani nell’hardisk, li fa arricchire di sfumature, a volte di stratificazioni esagerate, lo so, ma l’Italia era pur sempre la patria del prog e delle sue evoluzioni più barocche.
Possiamo dire che mi ispiro a quello anche se non è vero? È come se il mio bisogno di comunicare facesse pressione per un sacco di tempo fino ad esplodere poi nei miei arrangiamenti. I brani dell’album ne sono la prova: credo di averli scritti tutti chitarra e voce e suonati per anni così o col piano ma a furia di stare sul pc alla fine sono arrivati in missaggio che erano 80 tracce l’uno.
Il lockdown è stato il motivo per cui l’uscita del tuo disco è stata posticipata, ma anche la causa dell’aumento dei brani da 6 a 10.
Com’è successo questo e cosa è cambiato rispetto all’idea iniziale?
In tanti si sarebbero scoraggiati davanti ad una situazione del genere, invece che vedere il bicchiere mezzo pieno e sfruttare il periodo di quarantena come possibilità extra…
La verità è che i mix erano pronti ma lo studio era chiuso ed inaccessibile, avevo 3 mesi, ne sono usciti 4 brani, il videogame che accompagnava BACK 2 BED e molte altre idee: il tempo non finiva mai al punto che ho anche cominciato a praticare l’arte del bonsai, mi sono iscritto all’università che avevo lasciato da più di 10 anni e tanto altro. Diciamo che aggiungere 4 brani al disco è stato il meno che mi sono concesso per riempire le giornate di uno che era abituato a dormire 3 ore a notte.
POP DISEASE è un disco impegnato anche sotto il punto di vista socio-politico, in cui si parla di psicofarmaci, di disturbi mentali, di paranoie.
Nel disco c’è poco ego (anzi eego), pochi riferimenti personali ma molta critica alla società. Qual è il tuo messaggio e quale credi che sia la soluzione? In cosa dobbiamo sperare?
Siamo il paese di un certo tipo di cantautorato e qualunque italiano non può non esserne influenzato. Il mio messaggio è complesso ma possiamo riassumerlo in 3 punti:
– Ridateci il diritto alla bellezza, ad avere il tempo di viverla e goderne.
– Il sistema capitalista ci ha resi criceti in una maxiruota. Basta guardare una metropoli dall’alto di un grattacielo. A questo io reagisco con un bisogno irrefrenabile di ritornare a contatto con la natura, forse anche per questo finito il disco sono tornato in calabria per un po’.
– Terzo e ultimo argomento, ma quello forse più centrale: non c’è niente di male nel soffrire, nell’essere diversi, sentirsi diversi e troppo spesso ci viene data una soluzione semplice, quella di nascondersi dietro qualche patologia più o meno grave, dietro un difetto nostro o dietro qualche problema socioeconomico insormontabile e invece no, molto spesso siamo noi a dover reagire per superare cose che in fin dei con: fanno parte della vita.
È un disco cupo con un messaggio di speranza.
E allora perchè “POP”?
Perché sono i problemi ad essere diventati pop, i difetti che io vedo nella società, gli psicofarmaci nei pezzi trap, lo svuotamento progressivo dei contenuti, anche di quelli artistici o informativi, la politica. Abbiamo trasformato tutta la merda in pop e la trangugiamo allegramente mentre diventiamo sempre più ignoranti, disumani e soli.
Questo è molto pop ma soprattutto molto disease.
Le voci di Arua e Anna, oltre che alla tua, sono spesso “disumanizzate” e modificate, sopraffatte dagli effetti. Proprio come le più importanti lezioni di vita anche il tuo messaggio arriva camuffato e va ascoltato, metabolizzato e assimilato pian piano.
E’ facile fare un disco così difficile?
Il grande limite che riconosco nella mia musica è quello di essere troppo difficile per un ascolto pop, ma troppo semplice per gli amanti della musica sperimentale. È che vorrei sperimentare ma vorrei anche parlare a tutti e questo è un compito difficile a cui ambisco con la mia musica, ma a cui non sono ancora arrivato.
Questo problema me lo porto indietro da anni ma forse ci sto bene nelle vesti dell’incompreso. Alla fine poi un po’ di gente che mi ascolta e che veniva ai live (quando si potevano fare) c’era sempre e tanto mi basta.
Se poi volete saperla tutta, Arua e Anna sono bravissimi ma io sono stonato, per questo camuffo le voci!
Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Beh sulle fonti d’ispirazioni potremmo cominciare un’altra intervista quindi scelgo un brano per ogni brano di POP DISEASE, alcuni saranno spunti palesi, altri molto meno, possiamo fare un contest: chi li becca tutti può scrivere alla label e gli farò avere un vinile di JUNE (pop disease non l’abbiamo ancora stampato ma magari prossimamente…..)
A queste aggiungo anche Who Is It di Björk feat. Bogdan Raczynski che non c’è su spotify