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I mixtape nel 2020 non hanno un cazzo di senso

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Ok, la situazione è questa: è Giovedì, quasi mezzanotte, e come tutti gli appassionati di musica sanno, stanno per uscire i nuovi dischi o singoli della settimana.

Da buon ascoltatore di rap (si dice ancora “rappuso”? O son termini che fan parte della vecchia generazione, quello “pre XDVR” per intenderci… vabbè sticazzi) controllo quali siano le uscite più interessanti. Noto subito J Mixtape di Lazza, annunciato la settimana precedente.
Due pensieri attraversano subito la mia mente. Il primo: “Figo, Lazza è un gran rapper, tra i giovani più talentuosi. Certo, Re Mida era un po’ troppo ridondante e annacquato rispetto a Zzala, ma magari in questo lavoro, che appunto chiama mixtape ……….”. E di conseguenza il secondo “…… mixtape. Ma ultimamente hanno ricominciato tutti a rifare i mixtape? O perlomeno a chiamare così i dischi… l’han già fatto la Dark Polo, Tedua (lui addirittura due) e ora pure Lazza… boh vediamo”.

Ma non importa, son classiche seghe mentali. Mettiamo in play e sentiamo questo J Mixtape. Bene, partiamo. Prima traccia… non faccio in tempo a finirla che ne ho già le palle piene. Stoppo, vado a fare altro. Poi mi dico “no dai, diamogli una possibilità”, riprendo l’ascolto, arrivo fino alla fine e in conclusione gli unici due sussulti nella piattezza di questo “mixtape” (e ora vedremo perchè le virgolette) si riassumono in “Wow, Moncler pare un pezzo alla Pop Smoke… ah è un tributo… figo però” e “Insomma direi che Rondodasosa ha proprio ascoltato Polo G e ora parla come lui”.

Ora potrei soffermarmi ad approfondire il lavoro sopra citato e evidenziare amaramente come un rapper di talento come Lazza sia ormai fossilizzato a fare la stessa cosa e le stesse strofe da ormai troppi pezzi, creandosi questa immagine di dubbio gusto di trapstar annoiata buona solo a citare brand di moda. Ma preferisco evidenziare un’altra questione. E cioè che nel 2020 chiamare il vostro disco scialbo “mixtape” non rappresenta un cazzo.

Torniamo un po’ indietro nel tempo. Sono gli anni 2000, il rap è tutto fuorché un genere di moda, se dici che lo ascolti la gente ti percula facendo improbabili gesti con le corna, portiamo i New Era in testa per riconoscerci, la scena rap italiana è per un buon 80% un fenomeno underground e i live li vai a vedere in centri sociali o qualche posto marcio dove la maggior parte degli avventori probabilmente non si fa la doccia.

In questo scenario fiabesco, ci son due tipi di prodotti che i rapper fanno uscire: i dischi e i mixtape. Ora, chiaramente non mi metto a spiegarvi cos’è un album, ma soffermiamoci un attimo sul mixtape: la caratteristica che sanno tutti è che c’ha i beat americani anziché originali e vabbè, scontato appunto; ma il mixtape non è semplicemente farsi belli con le strumentali altrui, ha uno scopo ben preciso: ostentare skills, fare tutto quello che negli album non puoi fare, esagerare.
Prendiamo degli esempi concreti di quel periodo storico: Guè Pequeno in major con i Club Dogo fa cose ben precise, mantenendo l’attitudine da strada che contraddistingue lui e il gruppo, ma sa che comunque si rivolge a un pubblico vasto e sa fino a dove osare a livello di sound e tematiche.

Parallelamente, però, rilascia tre capitoli della sua serie di mixtape Fast Life dove letteralmente se ne frega di tutto: fa 20 e più tracce dove sfodera tutte le barre, il flow e tutta la spocchia possibile, chiama tutti gli amici e colleghi che trova per fare qualunque strofa, fa un pezzo dove manda a fanculo dei giornalisti con tanto di nomi e cognomi, chiama Salmo che dice “avessi un figlio gay sicuro lo pesterei”, roba che al giorno d’oggi lo lapiderebbero ma all’epoca se la cava con un beep al posto della parola incriminata.

Una commovente escalation di ignoranza, stupendo. Altri esempi: Jack The Smoker con il suo Game Over, Madman con i primi MM, Luche con Poesia Cruda, Gemitaiz con i suoi Quello Che Vi Consiglio e tantissimi altri.
Tutti che fanno massacri lirici, fanno a gara con tutti gli ospiti chiamati a chi fa la strofa più figa, chi incastra la rima tripla o quadrupla più figa e geniale, chi sperimenta i flow più assurdi, chi bestemmia, ecc.
In sintesi, nei mixtape dell’epoca, il rapper può fare quello che vuole, anche perchè di base sa che è un prodotto destinato a chi questo genere lo mastica bene, che sa cosa aspettarsi e che al contrario di altri ascoltatori random si può gasare realmente perchè sente certe skills e tecniche, roba veramente da nerd del rap.

Ritorniamo quindi ai giorni nostri, dove di base sono avvenute due cose.

La prima: è arrivato Spotify. La seconda: ora il rap è un qualcosa di moda e pure tua nonna sa cos’è. L’arrivo di Spotify fa sì che fondamentalmente si estinguano il freedownload e altri modi per rilasciare prodotti come i mixtape dove non si detengono i diritti sulle strumentali utilizzate.
La diffusione del rap come genere di massa invece causa una “semplificazione” del genere a livello di linguaggio e quindi decremento delle sopra citate skills e tecniche da nerd del rap, perché fondamentalmente ora i rapper devono essere ascoltati anche da quella gente che alla domanda “Che musica ascolti?” fornisce la leggendaria risposta “Un po’ di tutto”.
Risultato: niente più mixtape. E ok, ci sta, è la naturale evoluzione delle cose, ben venga il cambiamento, vorrà dire che ora usciranno prodotti più maturi (sì, certo…).

Alla luce di tutto ciò, perchè ora nel 2020 alcuni rapper stanno riesumando la dicitura “Mixtape”? Risposta: marketing. Ora io sopra ho dato una definizione molto old school un po’ “all’italiana” di mixtape, so benissimo che in America alcuni tape sono alla stregua di album e sono mega iconici (due esempi: Rich Forever di Rick Ross e LIVE.LOVE.A$AP di A$AP Rocky) o che per alcuni artisti del nostro Paese hanno rappresentato comunque i primi dischi meno patinati prima della major (pensiamo alla trilogia della Dark Polo Gang o a Orange County di Tedua). Fatto sta che lavori come Dark Boys Club, Vita Vera Mixtape o quest’ultimo J Mixtape non sono versioni più grezze e street dei loro dischi ufficiali, son semplicemente la stessa identica cosa che fanno di solito, solo fatta peggio.

Sono dischi che sembrano fatti di scarti, sono noiosi, non aggiungono nulla alle carriere degli artisti, sono semplicemente un modo per far uscire del materiale random in modo da tenere caldo il nome e magari ottenere qualche piazzamento provvisorio in qualche playlist.

Al massimo questo tipo di lavoro li concede la giustificazione di prendere paro paro flow e stili dei rapper d’oltreoceano perchè “Ehi, è un mixtape”. Se vogliamo entrare nello specifico: Dark Boys Club fallisce nel provare a restituire sensazioni che ormai non scaturiscono più (trovate qui una nostra recensione al riguardo). Vita Vera può avere un senso perchè era un po’ che si sentiva la mancanza di materiale di Tedua ma viene appesantito da una seconda parte rilasciata poco dopo, totalmente non necessaria. Mentre J Mixtape, come già detto, ci porta un Lazza che, al netto delle tantissime apparizioni in diversi dischi dell’ultimo periodo, ha semplicemente stancato.

Io poi mi auguro che questa nuova “ondata” di mixtape sia solo un modo per calibrare il tiro o, meglio ancora, l’ennesimo fenomeno passeggero, ma soprattutto spero che non ci sia la pretesa di stare riportando in auge una certa spontaneità o attitudine nel rap perchè ecco, sarebbe un po’ una presa per il culo visti i risultati. Tutto qui.

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