Musica morbida e sognante, che ti avvolge e ti coccola e che dobbiamo chiamare col suo nome: lo-fi hip-hop.
Milano, quaranta gradi all’ombra e ventilatore dell’ufficio rotto.
Mentre mi asciugo il sudore dalla fronte, su un gruppo WhatsApp mi arrivano fotografie-ricordo di una vacanza in montagna con gli amici risalenti a ormai quindici anni fa.
Mi estraneo dal mondo e ripenso ai quei momenti, di cui rimpiango non solo il fresco ed il senso di nausea che mi veniva dopo aver fumato le mie prime Winston Blue ma anche, e soprattutto, la spensieratezza con cui affrontavo la vita in generale.
Finisco di viaggiare con la mente e mi ritrovo circondato dalle solite scartoffie da compilare, in un mondo ben diverso, con i sogni che diventano sempre più spesso delle utopie, oppresso dall’ansia di dover emergere in una società in cui, a dirla tutta, è già un successo riuscire a tenere in piedi la baracca, senza farla crollare.
Esco dalla schermata di WhatsApp ed in automatico mi si apre una pagina Youtube che avevo aperto poco prima: a basso volume sta suonando una web radio di cui sono uno dei 38mila ascoltatori collegati.
Nel video/gif una ragazza studia in cameretta, ogni tanto guarda il cielo fuori dalla finestra prima di immergersi nuovamente nei libri, mentre un gatto sembra addormentarsi sul davanzale.
La pace e la serenità di quest’immagine, ispirata a I sospiri del mio cuore dello Studio Ghibli, mi trasporta ancora una volta nelle mie nostalgie adolescenziali.

Le ore di studio della ragazza del canale Chilled Cow (che ad oggi conta 5,7 milioni di iscritti) sono accompagnate da musica morbida e sognante, che ti avvolge e ti coccola e che, col tempo, ho imparato a chiamare con il suo giusto nome: lo-fi hip-hop.
“Che cos’è il lo-fi hip-hop?” Trovare una risposta a questa domanda è impresa ardua nonostante una community di ascoltatori in continua crescita e sempre più in commisurazione, come in aumento è anche il numero dei canali che permettono la fruizione del genere.
Vado sempre in sbatti quando devo parlare di argomenti di portata così ampia che sfuggono alla possibilità di una catalogazione ben precisa (mi è già successo quando vi ho parlato di Moses Sumney) e a ‘sto giro nemmeno Wikipedia mi è di aiuto, non esistendo nessuna pagina dedicata all’argomento (anche se è stata aperta una discussione su Reddit per colmare questo vuoto pneumatico).
La risposta alle nostre domande non è facile da trovare perché ci troviamo di fronte ad un processo in continua evoluzione, che non ha una meta ben precisa, modellabile come del pongo a seconda del tempo e delle situazioni.
Ho iniziato a dar peso all’argomento quando mi sono reso conto che la mia fruizione non coincide con i miei momenti di svago (per quello c’è sempre St Germain), ma al contrario quando lavoro, quando devo scrivere, quando mi devo concentrare, quando devo studiare.
Proprio come fa la ragazza nel video.

Negli anni ’50 con il termine ombrello lo-fi si intendeva quel tipo di produzione musicale a bassa fedeltà (lo-fi sta per low-fidelity) e di minor qualità rispetto allo standard della high fidelity music: di base chiunque producesse musica con una strumentazione povera o scadente si beccava quest’etichetta, intesa con accezione negativa.
Nel caso del lo-fi hip-hop, però, la scarsa qualità del suono non è un difetto di creazione, bensì una precisa e ricercata scelta stilistica ed estetica: mentre nei lavori hi-fi un elemento come il graffiare di un disco sembra superfluo e cacofonico, nel panorama lo-fi questo risulta una componente fondamentale ed un tratto distintivo.Appoggiati adagiati su sample degli anni 70-80 e rinvigoriti da beat hip-hop, suoni come il verso dei gabbiani o il rumore di una vecchia VHS possono creare combinazioni di facile accesso, che, come dice la produttrice olandese eevee “ti calmano, ti puliscono la mente e ti aiutano a dimenticarti dei problemi o ad affrontarli in maniera migliore”.
Dobbiamo aspettare gli anni ’80 perchè inizi ad essere apprezzato il do-it-yourself, ed è solo dieci anni più tardi che il genere lo-fi inizia ad assumere una popolarità sempre maggiore, senza mai allontanarsi dal concetto di musica amatoriale prodotta con scarsa strumentazione.
Nel 2003 l’Oxford Dictionary definisce la musica lo-fi come “un genere musicale caratterizzato da una produzione minimale e dal suono poco sofisticato” e solo dal 2008 ci si sofferma sul fatto che questa è una “precisa scelta estetica”.
Uno dei precursori del genere lo-fi è Nujabes, producer giapponese solito fondere insieme hip-hop, jazz e musica elettronica, creando suoni dolci e nostalgici, dando vita a mondi rincuoranti e sognanti, arrivando ad un prodotto audio che, accompagnato da disegni pixelati di romantici crepuscoli, di sigarette fumate dal vento o di corse sotto la pioggia, diventa un tentativo di rassicurazione, una pacca sulla spalla, facendoci vivere una sensazione di ottimismo che vuole andar oltre la nostalgia.
Si torna a parlare di nostalgia, lo so, ma questa rappresenta una dei punti cardini del lo-fi hip-hop.
Se vogliamo continuare il nostro excursus (così poi magari facciamo anche la pagina di Wikipedia) un altro pilastro della cultura lo-fi è James Dewitt Yancey, noto ai più come J Dilla, rapper e polistrumentista di Detroit che ha collaborato con alcuni dei più importanti artisti della scena hip hop americana degli anni ’90 (De La Soul, A Tribe Called Quest, Erykah Badu, Busta Rhymes).
Con ritmi freddi, pacati e diametralmente opposti all’hardcore del Wu-Tang Clan, J. D. è ricordato per aver umanizzato la drum machine, decidendo di non quantizzare (ossia non sincronizzare) le note con i tempi musicali, rendendo i toni delle sue produzioni più naturali, più umani, imperfetti.
Questa pratica cominciò a diventare sempre più popolare nella scena hip hop – si veda DJ Shadow – attribuendo a queste imperfezioni estetiche un ruolo sempre più centrale, perchè erano proprio queste a dare ai brani un sapore particolare.
Nonostante il rifiuto dei produttori di rivendicarne lo stile, che resta sempre e comunque confinato in un preciso recinto estetico, Il lo-fi hip-hop si è trasformato in un rilevante fenomeno musicale perchè di facile accesso per chiunque.
Sono proprio la semplicità e l’accessibilità del genere ad essere i motivi alla base della sua popolarità, anche se nel lungo periodo potrebbero diventare le cause del suo crollo: le web radio su Youtube e le playlist su Spotify vengono su come funghi, e piattaforme come SoundCloud e Bandcamp sono forse addirittura già sature di questo tipo di produzioni.
Del resto, come dice idealism, “Penso che chiunque possa occuparsi di lo-fi hip-hop, non è mica una scienza missilistica. È facile da ascoltare, è musica semplice, gli accordi sono prevedibili”.
Il produttore finlandese la fa facile insomma, come per dire “chiunque potrebbe fare la roba che faccio io” (provateci e poi ne riparliamo), e, modestia a parte, resta comunque uno di quei produttori di lo-fi hip-hop che continuano a lavorare sodo, consapevoli che la loro musica accompagna la vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone, suscitando forti emozioni, diventando anche un sottofondo per placare il nostro senso di ansia e di inadeguatezza.
“La nostalgia” dice il producer “fa sognare ad occhi aperti e riflettere sulle vite, creando un attaccamento più profondo e personale alla musica”.
Ci ritroviamo ancora una volta a parlare di nostalgia, ma se mai ci dovrà essere una pagina di Wikipedia sul lo-fi hip-hop vorrei leggere “Genere musicale che ti aiuta a tornare indietro nel tempo, in quei mondi passati che non torneranno più ma che ci permettono di ricordare che, almeno una volta nella nostra vita, abbiamo saputo essere felici”.
Commenti
3 risposte a “Perché sono andato in fissa per il Lo-Fi Hip Hop”
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[…] cosa ho ascoltato esattamente? Non perché non abbia gradito, anzi. E’ solo che mi sembra qualcosa di già ascoltato, ma anche qualcosa di nuovo.Senza stare a soffermarci su tutte le riflessioni che ho fatto, sono […]
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