Circolo Ohibò, Serraglio, Circolo Svolta. Milano saluta i suoi baluardi di musica “che sta per accadere” e, come da un lato è normale che sia, il dito viene puntato contro l’epidemia di Covid. Eppure più passa il tempo, più mi sembra che possa calzare a pennello quel detto cinese che recita Quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito. Non mi sento nemmeno di dire che la colpa sia del genere di attività che si svolgeva in quei luoghi: in tutti i casi citati non è l’idea ad aver fallito, bensì la struttura. Non il progetto, ma la sua casa. Tutti hanno rinnovato il desiderio di ritrovarsi altrove; non lì dove il nome si è associato ai muri, ma laddove possa esserci qualcuno pronto a puntare su di loro.
Può essere definita mancanza di fiducia nei confronti del progetto, dunque? No, non mi sento nemmeno di fermarmi a questa chiave di lettura. Riassumendo: non il Covid, o meglio, non solo. Non la musica dal vivo in sé, ma anche sì. Non le spese, ma insomma, anche loro un peso ce l’hanno. Ma quindi? Stiamo forse qui a raccontarcela che vale tutto e il contrario di tutto come in ogni bollettino live su Facebook di questi mesi? No. Siamo qui a dire che se davvero vogliamo capire cosa sta succedendo alle case della musica dal vivo, dobbiamo smettere di fissare il dito e iniziare a guardare la luna.
Il dito che indica la luna
E come in ogni cambio di prospettiva la strada è lunga e tortuosa e bisogna avere la voglia, la pazienza e la sincerità di mettersi in gioco e farsi un esame di coscienza. Perché di innocenti e puri, non ce ne sono. Perché la musica che gira, giusto per usare un’espressione che cita uno dei movimenti apparentemente più incisivi e inclusivi della battaglia degli invisibili del mondo dello spettacolo, è malata di un virus che è arrivato ben prima del Covid-19: quel virus fatto di individualismi, scarsa lungimiranza, assenza di tutele, di regolamentazione, di fiducia, di collettività, e anche di legalità. A fallire, a quanto emerge da queste prime uscite pubbliche, non sono le imprese della musica, ma le associazioni, la realtà più culturale di tutto il settore. Perché le grandi agenzie hanno rimandato tutto al 2021, tenendo gli incassi dei biglietti venduti, convertiti in voucher. Perché le grandi location sono ormai di proprietà o quasi delle grandi agenzie o dei giganti del ticketing. Perché le imprese non hanno per forza nei live la prima attività, ma hanno la possibilità di puntare su altre proposte. Perché un codice Ateco, ciò che identifica un’attività pubblica, per i live club non esiste, ma per la ristorazione sì. E bar e ristoranti hanno riaperto da tempo.
Leggi anche:
Fare il musicista era impossibile anche prima del Coronavirus
Il vaso di Pandora dello spettacolo
Il Covid ha scoperchiato un vaso di Pandora che bolliva già da tempo. Troppo tempo è passato con cachet davvero drogati da un mercato dettato dai numeri di Spotify e Youtube, numeri a loro volta drogati da bot, acquisti, spintarelle per entrare nelle playlist giuste. Sono già finiti da tempo i periodi in cui i Cani, i primi Thegiornalisti, Zen Circus, Canova, Brunori Sas, riempivano i locali senza mai aver visto l’ombra di un passaggio in radio. Levante che con un ukulele e Alfonso in alta rotazione su radio Deejay, veniva scartata da Sanremo giovani ma faceva sold out alla Salumeria della Musica. I sold out dettati dal fatto che la gente ascoltava su Spotify e Youtube musica che non poteva trovare altrove. Ecco quei numeri erano puri, erano sinceri. La gente voleva ascoltare queste proposte e riempiva i locali che davano fiducia e spazio a questi artisti. Calcutta che si è fatto da solo il primo tour, chitarra e voce, scrivendo su Facebook alle pagine dei locali per proporsi. Ma è stato uno Tsunami, quella scena si è presa tutto: radio, tv, palazzetti, stadi. E i live club? Niente. Perché la crescita è verticale, è rapida, tre mesi cambiano una carriera e nessuno vuole “ringraziare” chi ha dato fiducia, tornando e garantendo numeri che permetterebbero crescita e progettazione per un locale. No: per i locali vige solo l’adrenalina del rischio. La voglia di crederci, in modalità talent scout e sperare che vada bene.
Una categoria davvero unita
Ma questo (quando va bene) fa bene all’ego, ma non al portafoglio. Guardate l’Ohibò: negli ultimi dieci anni tutti gli artisti che oggi vanno negli stadi sono passati da lì. È una delle cose che hanno detto quando la serranda è calata, per sottolineare la grandezza del progetto Ohibò. Ma la frase “ha suonato lì quando davanti c’erano dieci persone” nasconde tutta la povertà d’animo di un pubblico con la pancia piena. Avere dieci persone davanti significa che quella data, per il locale, è un buco economico. Significa che la gente non ha fiducia nel locale per le sue proposte, ma si sposta solo in base al nome. Insomma, hanno ragione le agenzie che vanno direttamente nei palazzetti dopo mezzo tour andato bene. Perché mai uno dovrebbe tornare al Serraglio, sei mesi dopo, a rifare 250 persone, e magari dopo un mese all’Ohibò, e una data a Brescia, quando puoi fare una data sola ai Magazzini Generali, mettere 10 euro di biglietto e venderla come unica data in Lombardia del tour? Alla fine contano i numeri, e così i numeri li fai perché la gente vuole vedere quel live, non tanto andare in un locale dove sa che potrà godersi un buon concerto, anche se non conosce l’artista. E quindi no, nemmeno il pubblico è estraneo dal concorso di colpa del fallimento culturale della musica dal vivo milanese. Perché bisogna vivere i luoghi dove si passano le proprie serate, non rimpiangerli quando poi chiudono. Se solo la metà di chi ha condiviso i post di addio a questi locali, fosse stato cliente fisso, nessuno di quei locali avrebbe mai toppato una data.
Leggi anche:
Come sta chi lavora nella musica oggi: ne ho parlato
con Simone Castello del Circolo Ohibò
Una voce autoreferenziale
Ma il problema è anche che le battaglie di questi mesi sono state fatte in prima persona dai professionisti della musica ed è stata vista come una vittoria, ed è effettivamente così. Il fatto che si è andati avanti abbastanza compatti per far sentire la propria voce è una conquista per una categoria che ha sempre avuto molti concorrenti e pochi colleghi. Ma è una voce che più va avanti più sembra autoreferenziale. Perché è la voce degli operatori della categoria, ma non del pubblico. L’unica reazione della gente che va ai concerti ma non ci lavora si è sentita solo quando non è arrivato il rimborso dei biglietti per gli eventi annullati, e non certo per sostenere la battaglia. No, loro volevano indietro i loro soldi, non dare fiducia a un settore con la possibilità di avere già il biglietto per l’anno dopo o per investire pari importo in uno o più concerti alternativi. Ma questa è la giusta conseguenza di tutto il discorso fatto fino ad adesso. Manca la cultura. La cultura del rispetto. Manca verso gli altri, figuriamoci se può esserci verso la cultura stessa. Siamo abituati a lamentarci per i concerti dai balconi, a far foto ai vicini che escono di casa per più di duecento metri, siamo in grado di far polemica su qualsiasi cosa che ci colpisca. Viviamo con una perenne coda di paglia che non ci permette di capire che, a volte, basterebbe stare in silenzio per permettere alla voce di qualcun altro di farsi sentire in modo più chiaro. Non si sta chiedendo nemmeno di sostenere tutte le battaglie, ma almeno di non andarci contro a prescindere, ecco. La sfida del #nessunoescluso, vero boomerang dei decreti di questo governo, è una sfida da vincere per tutti, anche per la musica dal vivo.
Una nuova era
In quel vaso di Pandora sopracitato c’è anche l’esigenza di una legge del pubblico spettacolo che regolamenti finalmente un settore che è terra di nessuno. Se ne sta discutendo, sembra che qualcosa effettivamente si stia muovendo, ma bisogna fare in fretta. E quando tutto ripartirà si dovrà capire che nulla sarà come prima, nella preparazione di una data. Bisognerà capire le esigenze in ogni diversa realtà, venirsi incontro, correre il rischio insieme. Perché non si può chiedere a un locale di andare a pari solo in caso di soldout, e nemmeno negare a tutta una serie di locali di poter programmare concerti con artisti che sul loro palco ci starebbero benissimo, ma che per mire di grandezza puntano solo ai palchi più grossi. Perché indietro non si torna, e quando succede, l’artista è ormai bruciato. Perché tornare all’Ohibò, o al Serraglio, o al Circolo La Svolta, giusto per citare locali che identificano un certo target, dopo aver fallito all’Alcatraz, è un’onta difficile da lavare.
Da questa melma ci usciamo, ne sono sicuro. La cultura non può morire, non lo può fare la musica dal vivo, e nemmeno quel pubblico viziato e distratto che ai concerti piange, fa foto, limona, litiga, si diverte. Ecco, divertirsi è solo una delle cose che succedono durante un concerto, ma questo sembra che anche i politici stiano iniziando a capirlo. E noi? Dopo esserci indignati, lo abbiamo capito davvero? Non è per niente divertente quello che sta succedendo, e tutti noi siamo un po’ colpevoli. Per cui agiamo, sosteniamoci, aiutiamoci e usciamo da questa situazione. E se davvero sei arrivato fino alla fine, allora vuol dire che questo mondo ti interessa davvero. E ti ringrazio. In tasca non va nulla, ma vuol dire che la passione non c’è solo in chi scrive, ma anche in chi legge. Ora tocca a te.
Pingback : Green Island: da Spaghetti Unplugged a Tinder - Save The Tape