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MARCO GIUDICI: «LA MIA MUSICA È UN PROCESSO SOFFERTO»

marco giudici

Marco Giudici è una recente acquisizione di 42records, ma in realtà parliamo di un artista che da parecchio tempo è presente sulla scena indipendente italiana. Già si era fatto conoscere per il suo progetto solista in lingua inglese Halfalib e per la collaborazione con Adele Altro in Any Other. Stupide cose di enorme importanza è un disco che parla di Marco, del suo mondo, delle persone che gli stanno attorno, delle cose che bucano il suo tempo. È un disco intimo, uscito il 17 aprile di quest’anno, che esporta le emozioni dell’artista al suo ascoltatore in un rapporto duale, senza dimenticare che a lui si aggiungono una serie di emozioni, stati d’animo, persone. Oltre alla sua musica e alle sue parole, in Stupide cose di enorme importanza trovano spazio Adele, (che ha contribuito anche agli arrangiamenti e alla produzione, continuando uno dei sodalizi più belli e variegati dell’attuale panorama musicale italiano) Jacopo Hachen, Alessandro Cau, Lucia Violetta Gasti, Daniela Savoldi, Colapesce e Andrea Poggio. In altre parole, un progetto che si discosta dalla maggior parte delle pubblicazioni più recenti.

Ciao Marco, come stai? Hai ripreso la tua vita a pieno regime post lockdown?

Ciao Lorenzo, tutto bene, grazie. Più o meno sì, ho ripreso. Non ho lavorato in quarantena, mi sentivo freezato. Ho interrotto tutto per un paio di mesi. Suonavo solo per me, senza produrre comunque nulla. Da giugno, invece, ho ripreso a lavorare in studio a Milano, mentre a fine luglio dovrei anche riprendere a suonare in pubblico.

Come ti stai preparando ai futuri live?

Dunque, i primi live saranno per forza di cose da solo, quindi tutto in base. Prima del Covid19 avevo organizzato a grandi linee il mio tour. L’idea era di portare tre forme differenti di show, sul palco. Per 6 mesi fare uno spettacolo poi fermarmi e rifarlo, in chiave differente. Mi piaceva l’idea di partire super minimale, io e Adele, da soli. Io con due campionatori e lei con il sax e qualche altro strumento. Uno spettacolo incentrato sulla voce e la narrazione. Mi piaceva anche l’idea di sconvolgere il tutto portando solo musicisti; completamente suonato, così da dare spazio anche a questa interpretazione. La terza variabile ancora non la so. Non sono molto convinto di adottare vie di mezzo, preferisco scelte radicali. Non voglio fare un live con i musicisti e troppa roba in base, di questo sono sicuro.

Hai preso un po’ le distanze più volte dall’etichetta di cantautore, ma perché? Che cos’è un cantautore secondo Marco Giudici?

L’idea che c’è di cantautore, secondo me, non rientra nel mio mondo musicale, non ha molto a che fare con quello che faccio. Nel senso che se penso ad un cantautorato penso ad una forma musicale. Un processo che influenza enormemente la forma. Mi viene facile ricollegarlo al cantautorato storico, classico, anche straniero. Per questo io mi definisco uno “scrittore di canzoni”. Nella mia musica l’attenzione è anche posta sul testo e questo influenza tutti gli altri elementi, ma non sento l’esigenza di rispondere a questa etichetta.

Hai scelto il tuo nome per tenere le cose insieme, il tuo essere artista e producer, ma in ogni caso sono due identità distinte. Come le interpreti?

Bella domanda. È complesso in verità. Di sicuro quando metto mano a qualcosa che ho scritto io ho un tipo di approccio diverso, un’emotività differente rispetto a quando vesto i panni del produttore. Quando produco sono più analitico, cerco di aiutare una persona a esprimere quello che ha dentro. Il mio ego ha un peso differente. Questa cosa dell’ego non è facile da gestire, cerco di lasciarla da parte. Quando scrivo invece devo essere soddisfatto di quello che faccio. L’ego, ti dirò, è il più grande discrimine tra le due facce. Mi viene da sottolineare le differenze più che le cose che le accomunano, sinceramente. Un po’ come se scavassi un solco.

Parliamo di Stupide cose di enorme importanza. Il disco è molto intimo all’ascolto, suscita emozioni che condividiamo con riservatezza, spesso. Sei partito da questo nella stesura dei tuoi testi o è stata una conseguenza di una tua ricerca personale?

Non è una cosa che sono andato a cercare, ma ci sono un po’ finito. Molti dei miei rapporti si traducono in relazioni duali. Il mio habitat naturale è proprio il “a tu per tu”. Nel mio lavoro mi ritrovo per giorni a confrontarmi con un’altra persona, quindi per me è una sorta di rassicurante zona franca. Mi sento a mio agio. Mi permette di esprimermi al meglio. Nella musica ho finito per ragionarci spesso, forse troppo. Nello scrivere è rimasto qualcosa di un po’ incontrollato, è un processo che resta non codificato. Non sono uno che si mette al piano e ti tira fuori una canzone, non mi interessa lavorare così. Cerco di estrapolare cose che altrimenti resterebbero chiuse dentro di me e che sento debbano uscire in qualche modo. Per questo è un processo anche sofferto. Infatti, dopo sto molto meglio, mi sento sollevato. Non è sempre così ad essere sinceri… Ovviamente faccio sempre revisioni in un secondo momento, una certa progettualità deve sempre intervenire.

Sei quasi colloquiale in alcuni brani come pallonata con fotografia, come si coniuga l’intimità con queste scelte lessicali, come dire, più “sociali”?

È un po’ come il parlare da soli. Anzi è proprio così, nel linguaggio puramente letterario temo di tirare fuori cose che a volte non sono veramente mie. Preferisco usare il mio vocabolario di tutti i giorni, mi rappresenta meglio.

Ho letto che i tuoi primi pezzi sono stati scritti nel 2017, sono ben tre anni di lavoro alle spalle. Non è poco per i ritmi odierni. Come ti rapporti con questo trascorso nel tuo nuovo album?

Faccio una premessa. Sì, ho scritto tre pezzi a fine 2017, poi gli altri, però, li ho scritti nella primavera del 2018, in circa un mesetto e mezzo. Ci ho lavorato in autunno con Adele, post tour di Any Other, per raggiungere più o meno la forma che hanno ora. In verità, vi sarebbe da fare un discorso sui tempi di lavorazione dei dischi. Non è un giudizio sul lavoro di me stesso o di altri, però ci sono due tipi di dischi: quelli che vengono scritti e concepiti in un mese e mezzo, che ti arrivano diretti e tu, sentendoli, puoi captarlo. E poi ci sono gli altri che impiegano un tempo ben più lungo di gestazione. Hanno dei connotati diversissimi e te ne rendi subito conto. I primi hanno un’identità per via del tempo in cui sono stati scritti, i secondi, invece, hanno un’identità che spazia oltre il tempo. Quelli eccessivamente legati al proprio momento storico non li apprezzo personalmente, anche se è giusto che si facciano.

Cosa è cambiato in te dal progetto Halfalib ad oggi, come artista?

Sono cambiate tante cose dal primo progetto. Fare quel disco mi ha messo in un’ottica di percorso che sto tutt’ora perseguendo. Mi sono capito. Ho cercato di lavorare in quella direzione a tutto tondo. Quell’album forse è più un momento 0 che una reale partenza, quella è avvenuta ora. Per risponderti ti direi che è stato un prendere coscienza. Ai tempi di Malamocco non vivevo da solo. Non mi mantenevo totalmente con la musica… ora è tutto cambiato. Per fare Stupide cose di enorme importanza mi sono preso due mesi senza lavorare per nulla, per questo è stata una scelta anche molto più pensata e consapevole.

 
 
 
 
 
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Aneddoti sulla produzione del disco?

Allora, ho due episodi di disagio estremo [ride, nd]. Il primo riguarda il periodo in cui dovevo registrare le voci. Tutti hanno paura di fare un po’ le voci, io non riesco a fare due take e farle perfette. Devo per forza esercitarmi un po’ prima… mi sono detto: mi fisso due giorni e faccio solo quello. Una settimana prima di registrare ho deciso di cambiare letto. Da lì ho avuto un mese di raffreddore ininterrotto. Ho cambiato più volte doghe, materasso, coperte, ma non cambiava mai nulla. Non sono più uscito di casa per convalescenza e mangiavo solo riso in bianco. Alla fine ho registrato le voci e sono tornato alla normalità. Però in quel mese ho dormito un po’ per terra un po’ no, continuavo a spostare tutto e a consumare sacchi di riso… deve essere stato divertente da fuori. Mi svegliavo disperato ogni giorno con occhiaie assurde. Il secondo aneddoto riguarda il mio vagabondare per l’Italia. Sono stato un mese a Bologna a registrare Georgaphy per Any Other, poi a Verona per il disco dei C+C, dove dormivo nella loro cucina. Il tutto con il mio studio appresso. È stato un periodo molto forte e formativo. Ho scritto praticamente quasi tutti i testi durante questi due mesi.

Parliamo un attimo del lato produzioni: hai lavorato molto con Adele, il vostro rapporto è un sodalizio solidissimo, quanto c’è di questo rapporto nel tuo ultimo disco?

C’è tanto sicuramente, è una cosa che abbiamo scritto insieme. Ha seguito tutti i processi e qualche volta, visto che non mi piace stare al computer – già lo faccio di lavoro – ci stava lei a supervisionare tutta la produzione. Abbiamo controllato insieme tutte le tonalità, gli accordi, le strutture. Il proporre sul tavolo di lavoro comune delle idee che poi venivano scartate con lungimirante decisione da Adele mi ha aiutato tantissimo. Avevo tanto da dire, da mettere in ordine e da comprendere. Cercare di capire se un’idea è coerente o meno con il resto a me richiede molte energie. Avere una controparte, come Adele, che ha un’opinione e uno sguardo esterno, più lucido, è essenziale. Ha velocizzato e migliorato il lavoro. In Malamocco per esempio avevamo lavorato diversamente. Avevo iniziato da solo e poi era intervenuta lei quando io mi ero un po’ perso e avevo bisogno di aiuto. Nel nuovo disco invece si è proceduto ben diversamente. Parlavamo tanto e poi mettevamo in pratica le idea discusse condivise, senza martirizzare troppo i brani con mille prove. È molta roba mia, molti suoni sono mie fisse sonore. Però tutte queste cose sono state registrate da due persone, tendenzialmente lavoriamo molto insieme. Adele ha messo ordine alle mie molte proposte. C’è anche molta amicizia. Per dirti, abbiamo in parte anche un vocabolario comune. Abbiamo scritto entrambi nello stesso periodo di una sensazione comune utilizzando la parola “sterno”. Lei in Breastbone – sterno appunto – io in Giorni così. Abbiamo usato lo stesso termine senza accordarci per descrivere una data emozione.

Far produrre una tua opera futura da un altro produttore non ti è mai venuto in mente?

Sì l’ho pensato, però devo trovare qualcuno con cui nasca un interesse reciproco. Per me è naturale lavorare con Adele. Mi piacerebbe avere una terza mente all’opera insieme a noi. Non escluderei progetti futuri a tre.

Qualche racconto particolare su una tua produzione con un altro artista?

Istintivamente mi viene in mente la produzione del primo disco di Generic Animal. È stato un periodo molto ricco, anche emotivamente. È stata la prima volta che io e Adele abbiamo prodotto un disco di qualcun altro insieme. Ho conosciuto Jacopo (voce dei Fine before you came) che è diventato una persona importante nella mia vita… ha riunito in pochissimo tempo molte persone, aveva creato un po’ di famiglia intorno al progetto.

Hai prodotto tanta musica, con questa esperienza alle spalle sai dirci dove andrà a parare la musica italiana più “indipendente” nei prossimi tempi?

Mah guarda, non so risponderti bene. C’è da dire che molta musica indipendente in realtà non lo è. Fare musica indipendente è una cosa, l’indie è un’altra. Quella che viene definita come tale in realtà ormai è appannaggio della musica pop. Molti progetti sono condizionati da grandi fette di mercato, dalle major, da logiche di suono e di promozione pop. Ormai l’indie ha una vita propria. La musica indipendente è un’altra cosa. Non ha molto spazio, perché non è una musica di riferimento, così anche chi si approccia a essa segue più il pop. Però secondo me pian piano verrà a crearsi un circolo indipendente, persone che vogliono suonare ce ne sono e presto nascerà un pubblico che vuole questo genere di intrattenimento. Ci vorranno un po’ di anni, tuttavia. Occorre sempre un po’ di storia e di esperienza alle spalle, prima che un circuito indipendente attecchisca. È una storia che si ripete è accaduto lo stesso anche per quelli che ora hanno sfondato.

Consigli musicali per noi in questo periodo?

Mi è piaciuto molto, e non la conoscevo prima, l’ultimo disco di Charlie XCX, una brava producer e compositrice pop inglese. Poi sto riascoltando, ma l’ho già amato parecchio, Fibs di Anna Meredith. Per ultimo ti direi Lorenzo Senni con cui condivido la passione per l’esplorazione di certi sintetizzatori.