Negli ultimi anni, da Youtube a Spotify, la fruizione musicale è cambiata radicalmente. Cosa si può fare per arginarne i risvolti negativi?
Quanto contano le cifre nell’industria musicale? Tanto, quasi tutto ormai. Gli uomini sono esseri imperfetti, la nostra percezione della realtà muta facilmente ed è fortemente influenzata dagli stimoli più vari ed imprevedibili: come possiamo discernere nel marasma di artisti quali siano validi e quali no? I numeri, pensiamo, ci possono essere d’aiuto. Ma non è proprio così.
Ci siamo ormai lasciati alle spalle quella che tecnicamente viene chiamata società industriale (caratterizzata dalla standardizzazione) e abbiamo abbracciato felici una nuova società decentralizzata, destandardizzata, flessibile. E soprattutto digitale. In questo nuovo ambiente che ci rende contemporaneamente fruitori e produttori di contenuti, si sviluppa una nuova economia: l’economia delle piattaforme. E mutano con lei, inevitabilmente, tutte le realtà che le ruotano attorno – universo musicale compreso. Con Youtube (e tutti gli altri network di streaming, fino ad arrivare a Spotify) i gusti dell’ascoltatore medio sono sempre più influenzati dalle logiche nascoste degli algoritmi. Come funziona l’algoritmo di Spotify? E quello di Youtube? Non è chiarissimo.
Il problema principale è che quello che noi chiamiamo genericamente algoritmo è, in realtà, una serie intricata di algoritmi, ognuno con scopo e funzioni diverse. In secondo luogo, e qui viene il bello, questi sistemi sono protetti da quelle che in gergo vengono chiamate scatole nere, che funzionano come gli omonimi dispositivi degli aerei: di fatto non puoi guardarci dentro per capire come funzionano, puoi vederne solo input e output – i processi tra questi due estremi sono nascosti. Questo per dire che non sappiamo esattamente come girano, ma possiamo solo avanzare delle ipotesi.
I risvolti e le conseguenze di un simile contesto sono infiniti. E molti di quelli che ci possono venire in mente sono negativi. Tra i tanti, come accennavamo, c’è la questione dei numeri: più una cosa è ascoltata, più facilmente verrà proposta dai sistemi di intelligenza artificiale. Ma il problema delle views non si ferma ad una questione di determinismo tecnologico.
Proprio qualche giorno fa il produttore Matteo Cantaluppi ha sollevato la questione sulla sua pagina Facebook:
Nella confusione generata dalle piattaforme, un minimo sollievo potrebbe essere dato dall’eliminazione della visualizzazione pubblica degli stream e dei follower degli artisti.
Se già il mondo musicale è governato dalle logiche (non sempre propriamente chiare) dietro ai servizi di streaming, non è forse il caso di eliminare anche il rischio dell’effetto gregge che spinge molti ad ascoltare un artista solo perché i suoi brani hanno tante visualizzazioni? La fruizione musicale, come è giusto che sia, è mutata in parallelo con la società. Ma forse, da questo punto di vista, sarebbe necessario un ritorno alla origini e alla genuinità. Un simile ragionamento è già stato fatto anche da Instagram quando ha deciso di nascondere il numero di like ai post: “Vogliamo che Instagram sia un luogo dove tutti possano sentirsi liberi di esprimere se stessi. Ciò significa aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono“.
Le canzoni, dopotutto, non sono solo un insieme di note e di parole: il loro valore intrinseco dovrebbe contare più del loro posizionamento all’interno di rapporti puramente quantitativi. Preso atto che la società industriale della mediazione ha lasciato spazio ad un nuovo contesto in cui i mediatori culturali non occupano più il ruolo cruciale di un tempo, sarebbe forse ora di spingere verso una nuova direzione che liberi l’utente almeno da una costrizione inconscia: quella dei numeri.
Photo by Omid Armin on Unsplash
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