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«græ» DI MOSES SUMNEY TROVA LA PROPRIA PACE NEL DOLORE

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In una recente intervista a NME, Moses Sumney ha ragionato sul fatto che «Le persone cercano sempre di definirti per capirti, ma la mia identità è qualcosa che non può essere definita, e non voglio che si provi a fare ciò».
Non è una novità che il cantante di San Bernardino si trovi a proprio agio in quel limbo che sfida ogni categorizzazione musicale (e non solo).
Anzi, è proprio per il suo essere sui generis che Sumney è riuscito ad evitare, quando era ancora agli inizi, tutte quelle precoci ondate di attenzione da parte della critica, meglio nota per aver rovinato le carriere piuttosto che per averle avviate.
Nel suo album d’esordio Aromanticism (Jagjaguwar, 2017), il cantante di origini ghanesi ha messo alla prova la sua malleabilità tecnica e stilistica, passando dal jazz al soul in maniera a volte addirittura confusionaria, dimostrandoci di essere in grado di saper supplicare come Prince e di potersi innalzare come Thom Yorke. Con Græ, Sumney vuole insistere sul suo diritto di essere multiplo: «I insist upon my right to be multiple» ripete in also also also and and and, portandoci alla consapevolezza che ogni tentativo di categorizzazione sarebbe superfluo, ponendo il focus sulla pericolosità che deriva dall’etichettamento di sé stessi e degli altri: «I’ve reached a point where I am aware of my inherent multiplicity. And anyone wishing to meaningfully engage with me or my work must be too».

Che Græ, il doppio album pubblicato in due tranche tra marzo e maggio, sarà un lavoro incatalogabile lo capiamo già ascoltando Insula, l’opening track che imposta il tono di tutto quel che seguirà: la voce robotica di Taiye Selasi sopra i sintetizzatori di Oneohtrix Point Never ci mette in guardia: Here we go into the grey, quindi preparatevi a visitare quella zona inesplorata che sta tra il nero ed il bianco, mettendo in discussione ogni appartenenza, ogni natura, categoria e razza, alla ricerca di noi stessi.

Per quanto siano pochi i brani di Græ che restano collegati tra loro sotto il punto di vista stilistico (tant’è che non è raro passare da atmosfere futuriste ad ancestrali suoni orchestrali), riusciamo a trovare nell’introspezione quel comune denominatore che crea connessioni tra i brani: con questo lavoro Sumney compie un viaggio alla ricerca di sé, senza voler delimitare il suo essere, tracciando un percorso che mira a nuovi spazi, come accade in Gagarin, quando la voce del californiano, sopra le note del pianista Esbjorn Svensson, è decisa nel dire «I wish I could dedicate my life to
something bigger. Something bigger than me
», prima che i sintetizzatori diffondano suoni ancestrali pronti a dissolversi tra le sue grida informi.

La natura di Sumney si scontra, come è già successo, contro una tradizionale definizione di sé e della propria mascolinità: in Virile la delicatezza delle arpe che si contrappone al fragore dei synth, ci anticipa che «You’ve got the wrong guy. You wanna slip right in. Amp up the masculine. You’ve got the wrong idea, son», prima che il corpo si smaterializzi per trasformarsi in polvere.
L’analisi dell’identità frammentaria di Sumney continua in Neither/Nor, una straziante presa di consapevolezza che rappresenta la più clamorosa delle affermazioni del cantante: «Hello, who is he? Nobody», ricordandoci come frequentemente, a causa di una natura effemminata, venisse ignorato: «A volte voglio baciare i miei amici. Non lo vuoi, vero? Vuoi solo che qualcuno ti ascolti» grida in Bloom.

La quiete di Two Dogs ci proietta verso la seconda metà dell’album, spostando l’attenzione sempre di più sulla persona, (non a caso troviamo il termine “me” in gran parte dei titoli): se la prima parte era quella del Sumney nero, crudo e impetuoso, ecco che ora abbiamo a che fare con il Sumney bianco, delicato, sofferente come in Bystanders, scoraggiato come quando “vede la fine in ogni inizio” in Bless Me.

Græ, nel complesso, è un lavoro coraggioso, tanto ambizioso quanto vulnerabile, volutamente ed ovviamente incatalogabile e amorfo, arricchito da collaborazioni illustri come quelle di James Blake, Daniel Lopatin, Thundercat e Michael Chabon. Il disco si chiude con quelle domande che almeno una volta nella vita ci siamo posti tutti: What does it mean to be in love? What does in love mean? What does in love mean? When we die, we won’t be together. You will never see that person again. Now go.
«Il dolore» ripete una voce androgina tra una frase e l’altra.

Græ è un album pieno di possibilità, che trova la propria pace tra i dolori.
And now you can go.