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FARE IL MUSICISTA ERA IMPOSSIBILE ANCHE PRIMA DEL CORONAVIRUS

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Si sono fermati i concerti e, come dichiarato anche da La musica che gira, il motore della musica rischia così di fermarsi. Ma fare il musicista è difficile solo ora, nel mezzo di una pandemia? La lettera di un artista anonimo alla redazione di Save The Tape ci spiega i retroscena che non si conoscono.

Alzi la mano chi aveva sentito parlare degli operatori del mondo dello spettacolo prima dell’avvento del Covid-19
Io, uno di loro, non ne sento parlare quasi mai; soprattutto non Li sento parlare quasi mai. Eppure, le grida di dolore di un settore in declino risuonano in questi giorni da Siracusa al Passo del Brennero. «Lo Stato ci aiuti, rischiamo di finire in ginocchio!». Drammatico, certo.

Ecco, io sono un musicista e lasciatemi arrivare subito al punto: posso assicurarvi che la situazione era drammatica anche prima. Nella vita non faccio solo il musicista, come la maggior parte di tutti noi, ed è proprio di questo che voglio parlarvi.

Ogni mia attività artistica è congelata da quasi tre mesi, nel momento in cui scrivo e presumibilmente rimarrò fermo per più di un anno.
Sono un musicista, una di quelle persone del settore intimorite e angosciate dal futuro a causa della crisi? Prima di rispondere a questa domanda, vorrei farvi fare un excursus in quello che significa, oggi, fare il musicista in questo paese.

«Ah suoni, ma quindi che lavoro fai?». Quante volte ci siamo sentiti rivolgere questa domanda? Io mai. L’esistenza di questa frase è un vecchio luogo comune, di rado corrispondente alla realtà. Suppongo sia un retaggio derivante da anni in cui i musicisti e gli artisti in generale erano visti, in Italia, come perdigiorno poco affidabili. Oggi è totalmente diverso.
Spesso la gente nutre invece una genuina curiosità nei confronti del mondo musicale e dei suoi funzionamenti. Anzi, vi sorprendereste nel sapere in quanti regolarmente mi chiedono: «Ma lo fai di lavoro?», convinti, glielo leggi negli occhi e nel tono di voce, che io sì, lo faccia di lavoro. Posta così, con tutte le buone intenzioni del mondo, risulta essere una domanda ancora più umiliante quando la risposta è: «Non lo so».

La mia storia è la storia di molti. La scoperta della musica da adolescente e senza accorgersene entrare in un sistema prima visto solo da lontano, nel mio caso quella della musica, riassumiamo così, indipendente.
Dischi, concerti, tour, etichette discografiche, agenzie di Booking, promoter, manager, uffici stampa. Persone, interviste, festival, palchi, folle. Tutto molto glorioso non credete?

Oggi, dopo tanti anni, posso percepire me stesso come un musicista che suona in un circuito che potremmo definire semi professionistico se non professionistico. Ho una struttura, dei collaboratori, una credibilità e ho qualcosa che posso definire un pubblico. Ed ecco il primo corto circuito: non ho nessuna possibilità di esibire i miei risultati professionali.
Non esiste organo, né contratto, né firma, che sanciscano la mia reale appartenenza a questo mondo. Perché questo è un settore che non possiede un inizio e non possiede una fine. È semplicemente nell’aria, come la musica stessa.

«Fai il musicista, quindi che lavoro fai?» come dicevo, è una domanda che non rivolge più nessuno, troppo stupida secondo gli standard di vita attuali, quando anche parlare a vanvera in video su YouTube è annoverato tra i lavori riconosciuti e rispettati. La gente, che è molto intuitiva e talvolta fin troppo candida, è pronta a credere che i musicisti siano lavoratori veri. Lo accetta, lo rispetta.

Piuttosto, sono io a rivolgermi spessissimo quella domanda e dovrebbero farlo tutti gli artisti, senza usarla come spauracchio di una società che “non li ha mai capiti”. Per quanto i musicisti si offendano, forse è ora di prendere un respiro e ammettere la verità, prima di tutto a noi stessi: possiamo anche raccontarcela ma noi non siamo lavoratori.

Fare il musicista è, soprattutto tra gli stessi operatori del settore, un’attività considerata come un ibrido, generalmente con gli oneri di un lavoro e gli onori di un passatempo. L’ambiente musicale è una eterna zona franca in cui il professionismo e l’hobbismo si mescolano fino a risultare una cosa sola. Si passa dall’uno all’altro stato senza soluzione di continuità, un pendolo infelice ed eterno in un miscuglio che confonde e svilisce gli appartenenti al ramo.

È una giungla. Un Far West. Le regole sono le stesse che potevano esserci, suppongo, nel mondo dei pirati. Orali, sfumate, composte da codici d’onore elitari evoluti in questa o quella forma da casualità e leggende metropolitane, strutturate sugli «a buon rendere» e sugli «io lo conosco»; sui «non posso pagarti ma» e sui «posso pagarti ma». In qualche modo alla fine i dischi vengono fatti, alla fine i concerti vengono suonati.
E questo è sempre andato bene a tutti.

So cosa state pensando. E perché mai la musica dovrebbe essere più che questo? La musica è quella cosa che si mette alle feste o che si ascolta sul treno, in macchina o per qualche secondo nelle dirette Instagram. Non è una delle cose importanti. E potreste anche essere legittimati ad avere ragione, potremmo parlare del decadimento dell’arte da dopo la sua accessibilità, di come Internet abbia distrutto certe professionalità eccetera. Sarebbe interessante ma non è il motivo per cui siamo qui.

Mi limito a rilanciare con questo: se vi raccontassero che il figlio di vostri amici fa il giocatore giovanile professionista di Basket, voi lo sapreste automaticamente che quello è diventato il suo lavoro, non avreste bisogno di conferme: lo Sport è tra le cose più regolamentate al mondo.
A cosa serve lo Sport? A niente, come la vita.

A differenza di uno sportivo il musicista, la cui attività non serve ugualmente a niente, può girare in lungo e in largo qualsiasi segmento del suo vasto settore, può cercarle ovunque ma: regolamentazioni chiare e uguali per tutti non le troverà. Non esistono. Nessuno le ha mai fatte. Nessuno ci ha mai pensato. Da sempre nella musica ci sono quelli che mangiano e quelli che hanno fame, con nel mezzo una specie di piramide gerarchica non scritta. Scoperchiare il vaso di Pandora degli aneddoti personali è un’esperienza che lascia stupefatto perfino me, che li ho vissuti.

Potrei parlarvi di quanta fatica e impegno servano per imparare a suonare uno o più strumenti, per capire un’arte secolare i suoi funzionamenti.
Di quanti soldi si spendano in strumentazioni, lezioni, approfondimenti, sale prove, concerti ai quali partecipare, dischi da comprare. Questi sono solo i primi 4, 5 anni di passione febbrile. Poi ci si espone e le cose si complicano ancora di più. Arrivano i concerti, le esigenze e subentra il senso di autoanalisi. Nasce la graduale capacità di discernimento tra situazioni amatoriali e professionali, nasce un’attitudine manageriale.

Si scopre come si fanno gli album: faccende da 4000, 6000, 10.000 euro. Progetti “di vita” con cui le band e gli artisti iniziano ad approcciarsi a 19, 20, 21 anni di età, imparando sulla propria pelle molto in fretta cosa significhi fare dei Business Plan, gettandosi a capofitto investendo tutto quello che hanno in termini di aspirazioni e denaro. Il più delle volte, fallendo e riprovando, fallendo e riprovando. Ogni volta è una scommessa, ed è per quello che non ci si ferma: gli artisti sono semplicemente affetti da ludopatia.

Dal vivo, sul palco, la posta in gioco si alza sempre di più, live dopo live. Sfacchinate di centinaia di km; 6, 12, 15 ore di viaggi, talvolta per fare esibizioni da mezz’ora o un’ora di fronte ad un pubblico di 5 persone. Perché, come detto, ogni cosa è una scommessa. Su e giù per lo stivale come pazzi in furgoncini stretti e caldi, caricando e scaricando tonnellate di costosissimo materiale, col cuore in gola per il perenne rischio di furti.

So di nuovo cosa state pensando: ma se questo si lamenta chi glielo fa fare? Ci tengo a precisare dunque: non mi sto lamentando, perché queste sono grandi esperienze di vita. Voglio però che vi sia ben chiaro cosa significa dedicarsi a tutto questo, perché si giudica solo ciò che si conosce.
Dicevamo quindi, levatacce, guidate, facchinaggio, montaggi, prove suoni, aspettative, esibizioni, smontaggi.

La dignità lavorativa di un musicista in questo insieme di attività si riduce il più delle volte ad un singolo gesto: la consegna di una busta, alla fine di una giornata di 16 ore come quella che vi ho descritto sopra. Busta contenente quanto pattuito precedentemente per la performance, che in genere nel mio livello è in media di 200 euro, con picchi in negativo pari a 0 e in positivo pari a circa 600. Soldi quasi sempre completamente in nero, tanto per sottolineare l’ovvio, che quando va bene (quando va bene) sono accompagnati da un documento di nome Borderò, su cui l’artista può segnalare alla SIAE le proprie canzoni eseguite quella sera e per le quali la stessa SIAE, ente pubblico economico a base associativa, riconoscerà dei proventi sulla base di criteri sempre un po’ confusi, in genere con un ritardo annuale ma se non altro affidabile.

Ai locali e ai circoli i Borderò costano e prevedono un certo grado di “legalità”, ragion per cui spesso misteriosamente non appaiono. Per un artista di fascia medio bassa i soldi racimolati dai Borderò si aggirano sulle poche centinaia di euro annuali. Con quella busta consegnata senza dare nell’occhio, un musicista quel weekend ci fa tutto. Paga la booking, i caselli e gli autogrill, la benzina, l’usura dei veicoli, la manutenzione della strumentazione e i solisti pagano i musicisti di supporto. Insomma, alla fine rimane ben poco, quasi niente.

Intendiamoci, chi mi consegna buste in nero non sono loschi figuri associati alla malavita, ma soprattutto persone che tentano con i mezzi che hanno di portare cultura ed esperienze aggregative, in definitiva vita, nei luoghi dove sorgono i loro locali, associazioni o circoli. Si chiamano promoter e come il musicista fanno l’unica cosa che possono fare per rendere possibili le esperienze dei concerti: quello che possono. Spesso tentano con fatica di farne un mestiere. Se mi danno una busta in nero è perché non possono fare altrimenti: senza questo ed altri escamotage non gli converrebbe neppure provarci a fare questa cosa.

Spesso i concerti si fanno quindi praticamente a rimborso spese o direttamente gratis perché se no si suona infinitamente meno o non si suona proprio, e il business che cerchi di costruire si arena alla base.
Aggiungo a riguardo un particolare importante: i concerti sono molto difficili da trovare e da organizzare, è uno sforzo che comprende il lavoro di molte persone e questa difficoltà è andata aumentando negli ultimi 10 anni. Suonare quasi ad ogni condizione è dunque un meccanismo entro un certo livello diffuso, nel quale ci si invischia facilmente e che rimane addosso come catrame.

Non mi riferisco solo ai concerti nei piccoli locali, ma anche a situazioni ben più in vista. Ho suonato in apertura ad artisti famosissimi su palchi molto rinomati e di fronte a pubblici di centinaia di persone che avevano speso 15 o 30 euro a testa per essere lì. Gli artisti famosi di cui parlo li conoscete bene e per quelle performance hanno generato utili pari a 30.000 euro o anche di più. Mentre io ero lì gratis. Spesso senza quasi parlare con nessuno, talvolta avendo l’impressione di essere un alieno totale per tutti i coinvolti, compreso chi mi aveva voluto lì quella sera.

Mi è capitato anche di peggio. Una volta aprii, ovviamente gratis, un famoso artista in un luogo da un migliaio di spettatori paganti. Fui invitato dalla gentile Booking dell’occasione a occuparmi di alcune incombenze amministrative. Acconsentii ma scoprii poi dagli organi competenti che occorreva il riconoscimento di un minimo “sindacale” da versare affinché questi documenti venissero realizzati. Chiesi allora alla Booking un cachet di 50 euro per la performance eseguita. Mi fu negato perché «potevo versarli da solo». Cosa effettivamente vera: legalmente potevo. Insomma, fui invitato a pagarmi da solo, per produrre la documentazione richiesta da loro.

Forse la tua musica fa schifo, mi direte, ecco spiegata la tanta noncuranza altrui. E avete ragione, è un dubbio che resta: ma nel caso facessi schifo, perché continuano a farmi suonare? È una domanda alla quale non sono ancora riuscito a dare una risposta. Esistono enti che accompagnano un musicista nella sua lotta quotidiana. I più diffusi si chiamano Cooperative, sono realtà sparse in tutte Italia alle quali, previo il versamento di una quota associativa, si può fare fede per creare un filtro di legalità attorno alla propria persona. In pratica, una partita iva per procura.

Sono uno strumento molto bello, composto da gente parecchio in gamba, peccato che non generino nei musicisti nessun reale potere contrattuale. Solo di rado fanno davvero la differenza tra guadagnare soldi legali che ti lascino qualche cifra significativa e arraffare i cachet in nero come se fossero soldi delle ripetizioni di latino che davi all’università.
Direte, ma i cachet dei concerti non sono l’unica fonte di introiti per i musicisti, giusto? In realtà praticamente sì. Il merchandising, unito ai pochi dischi che si vendono, spesso generano delle buone iniezioni di utili anche a fronte della spesa fatta per realizzarli. Ma per fare questo, ancora, bisogna suonare tanto e con continuità.

La SIAE potrebbe essere una valida stampella se si riempissero decine di Borderò e se esistessero fili diretti con il mondo delle radio o con quello delle cosiddette sincronizzazioni (quando la musica genera introiti venendo abbinata a qualcosa d’altro, come la pubblicità). Ma le radio, quelle che generano le cifre che fanno la differenza, sono praticamente irraggiungibili sotto ad un certo livello e realizzare “campagne radio” strutturandole con i propri uffici stampa è una faccenda piuttosto costosa. Badate bene, non sto dicendo che è un’ingiustizia perché alcuni passano in radio e altri no, sto semplicemente descrivendo oggettivamente la situazione.

E l’indotto generato dagli streaming? Ve lo riassumo così: anche a fronte di buoni posizionamenti, i guadagni dagli streaming sono talmente ridicoli che un musicista medio ci paga giusto le sigarette. Su questi miseri introiti, le società di distribuzione (chi fa da tramite) e le etichette (chi ti rappresenta) spesso ottengono giustamente delle percentuali per il loro lavoro. Le piattaforme di streaming, per giunta, sono aziende private che perseguono una propria linea di mercato con dinamiche piuttosto simili a quelle delle radio, che privilegiano artisti su altri in base a leciti criteri interni. Ancora una volta, ci tengo a ripeterlo, non ne faccio un dato di ingiustizia: credo che un artista, che persegue la propria visione abbia conseguito tutti i risultati che gli servono, il resto può essere visto come un surplus.

Tuttavia il sistema che sto descrivendo rende il grosso dei musicisti ben al di sotto della soglia di sopravvivenza e, inutile specificarlo, molto al di sotto di quello che sarebbe definibile un “plus”. So cosa state pensando per la terza volta. Se è tutto così complicato e privo di garanzie è tanto un problema accettare la sua natura di hobby?
Non è un problema, è esattamente quello che io e centinaia di persone facciamo. Il punto è che praticamente tutti sono costretti a viversela così, anche molti che nella vostra testa sono “famosi”.

Sfatiamo un mito che ancora perdura: parecchi artisti famosi, dopo un posizionamento del mercato che magari è durato dieci estenuanti anni (vissuti di stenti ed espedienti), oggi si ritengono fortunati se riescono a far quadrare i conti. Un musicista che avete visto dal vivo, in tv, alla radio o che seguite su Instagram, non hanno assolutamente conti in banca da capogiro, nonostante la convinzione dei più che il successo equivalga al riconoscimento economico. Spesso la carriera di questi artisti, che li porta ad esibirsi di fronte a platee di migliaia di persone e ad essere responsabili a loro volta del lavoro di decine di professionisti, è il lasciapassare per permettersi “il lusso” di vita assolutamente normale.

Gli artisti succitati, a differenza mia, loro sì che incontrovertibilmente lo fanno di lavoro, perché puntano solo su quelle entrate e sulla loro carriera per mantenersi. È a loro in realtà che va il mio pensiero in queste settimane perché sono tra le vere vittime della pandemia. La musica non li rende né troppo ricchi da non preoccuparsi, né troppo poveri da essere abituati ad appoggiarsi altrove. È la loro unica fonte di introiti: fermata quella il dramma è dietro l’angolo.

Ho omesso tanto e potrei andare avanti per pagine e pagine.
Le necessarie e costosissime relazioni professionali con fotografi, grafici e videomaker, categorie che invece hanno mantenuto prezzi di mercato molto dignitosi. Gli stressanti meccanismi dei social network, che costringono gli artisti a pubblicare continuamente contenuti per evitare la marginalizzazione da parte degli algoritmi.
Ho omesso le implicazioni psicologiche che possono subentrare in un’attività che porta continuamente ad essere al centro dell’attenzione.
La superficialità nella gestione della contrattualistica di alcune delle realtà più famose. La difficoltà nel gestire incompatibilità a livello di orari e fatiche con quasi qualsiasi altra mansione che possa bilanciare gli introiti che la musica non riesce a portare.

Si potrebbe scrivere un libro intero su questo mondo disastrato, che metterebbe in luce tanti altri aspetti. Il problema fondamentale può però essere riassunto così: nell’ambiente musicale manca la cultura del lavoro.
La sua natura carbonara ha evidentemente impedito di sviluppare una concreta e sana infrastruttura in questo senso. Patti con le istituzioni sono sempre state dei tabù, forse perché il compito dell’arte è spesso stato quello di creare delle voci al di fuori della cultura dominante, e l’origine della musica indipendente risiede in fondo nel “credo” del Do It Yourself.

Gli ultimi anni sono stati implacabili e la situazione era divenuta, nel corso del 2019, totalmente insostenibile. Mi dispiace abbozzare un j’accuse perché non è ciò che ha mosso questo scritto, ma credo che gli operatori più in vista di tutto il settore siano responsabili di non aver fatto niente. Negli ultimi dieci anni il mondo della musica indipendente è cresciuto come mai prima ma la necessità di una struttura normativa seria è stata continuamente evitata o ignorata, causando una serie di situazioni assurde e paradossali. Dal 2014 ad oggi, il pubblico ha riempito le platee di tutta Italia in acclamatissimi tour sold out, per la prima volta sono state iniettate nel sistema grande masse di liquidità, che avrebbero potuto sancire la rinascita economica di tutto il settore.

Ma le risorse arrivate sono state distribuite in modo totalmente sbilanciato proprio per la mancanza di una pennellata di legalità che tutelasse tutti.
Nel 2009 poteva essere normalissimo che per una performance un musicista famoso prendesse 2500 euro e il suo opening 50.
Nel 2020 l’artista famoso nel prende 30.000 e il suo opening sempre 50.

La musica indipendente si è capitalizzata senza criterio e senza regolamentazione e in qualche modo è nata la categoria di una specie di terzo mondo della musica italiana. Nella crisi senza precedenti del Coronavirus, molti (non tutti) tra quelli che adesso rivendicano il giusto diritto di farsi ascoltare dallo “Stato”, entità che per troppi esiste solo quando c’è bisogno di aiuto, sono gli stessi che hanno contribuito a creare questa calcificata situazione di diritti inesistenti o calpestati. Semplicemente, fino ad oggi, non erano loro a farne le spese.

Tornando alla domanda iniziale, sono anche io un musicista intimorito e angosciato dal futuro a causa della crisi da Coronavirus? No, perché il peggio che poteva esserci ci è già stato e una pandemia è una vera dilettante a fronte di decenni di inesistente cultura del lavoro. Io e centinaia di altre persone abbiamo sviluppato anticorpi per vivere in un mondo professionale che probabilmente non può essere cambiato; preferisco indirizzare le mie energie verso la costruzione di vere opportunità di vita, lasciando la musica tra quelle cose che, chissà, avrebbero potuto anche darmi maggiori soddisfazioni in condizioni diverse.

Sono comunque un musicista privilegiato. Sono nato nel momento di maggior progresso dell’umanità, nella parte del mondo in cui vengono quasi sempre garantiti lavoro, casa, cibo, salute, istruzione, libertà di pensiero e di opinione. Appartengo alla classe media in un paese industrializzato e anche se non potrò svegliarmi ogni mattina e fare musica tutti i giorni, so che le cose sarebbero davvero potute andare peggio di così. Come ho letto recentemente, non è vero che siamo tutti sulla stessa barca: siamo nella stessa tempesta con barche diverse.

Tuttavia assistere alla non cura di quanto di bello potremmo proteggere, proprio noi privilegiati di questa parte del mondo, lascia un amaro difficile da digerire. In un presente così ingiusto, in cui la bellezza e la leggerezza sono rare e impalpabili, noi non le sappiamo difendere nemmeno quando le abbiamo. Una strada che restituisse dignità a chi la musica la fa e alla musica stessa, sarebbe stata possibile con un po’ di sana volontà. Forse, chissà, potrebbe esserlo anche in futuro. Ma in tutta franchezza, il futuro mi tocca relativamente.

Ho visto talenti immensi perdersi disorientati nel mondo privo di coordinate della musica italiana, possiedo ricordi amari e preziosi su un settore che in fondo rispecchia il declino, l’imbruttimento e le occasioni perse di un paese intero. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.

[Photo by Rahul Pandit from Burst]