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I SETTE DISCHI DI MIA SORELLA CHE MI STANNO ROVINANDO LA QUARANTENA

Passare il lock-down in provincia non è facile di per sé; ancora peggio se i risvegli sono a suon dei sette dischi di mia sorella che mi stanno rovinando la quarantena.

Nonostante sia sempre stato attivo e pieno di cose da fare, mi sono sempre lamentato delle ore di sonno che il mio lavoro rubava al mio riposo, mettendo in discussione il mio fisico da quasi-trentenne (cosa che non ho ancora accettato di essere). Indubbiamente, comunque, mai avrei barattato le mie occhiaie con la situazione di angoscia, preoccupazione e noia attuale.

Costretto dal lockdown a tornare a vivere in provincia, con tanto (troppo) tempo libero a disposizione come tutte le volte in cui torno a stare da mia madre, ho deciso di riaccendere il vecchio computer e dedicarmi alla mia più grande passione: le battaglie campali ad Age of Empires.

Inevitabilmente sono tornato anche a condividere frigorifero e doccia con Chiara, mia sorella, laureata a pieni voti in “scienze biologiche di qualcosa che non ricordo mai”, 150cm di lentiggini e una grande passione per i classici Disney.

Nonostante lo stesso DNA, abbiamo gusti e ritmi diametralmente opposti: lei si sveglia all’alba per far ginnastica, io preferisco aspettare che si faccia mezzogiorno in modo da trovare il pranzo già pronto in tavola. Ovviamente non punto mai la sveglia, è il suo stereo a buttarmi giù dal letto. E provate voi ad essere svegliati con Sexy Chick di David Guetta e poi ne riparliamo!

Notevolmente irritato da questa situazione, ho deciso di sfogarmi trasformandomi in keyboard lion, andando a stillare l’elenco di quelli che sono i sette dischi di mia sorella che mi stanno rovinando la quarantena.

FINLEY – TUTTO E’ POSSIBILE (2006, EMI)


Era l’estate dei mondiali quando la Kinder scelse la band di Legnano per diventare la colonna sonora di quella deliziosa merendina che era il Kinder Maxi King. Io e mia sorella siamo fatalmente diventati fan: io dello snack, lei della boyband.

I Finley, insieme a Tokyo Hotel, Dari, Sonhora e chi più ne ha più ne metta, sono stati una di quelle band che meglio hanno rappresentato quel movimento ispirato al pop-punk americano dei Blink-182, Green Day e Simple Plan arrivato in Italia in netto ritardo.

Ecco, proprio quel periodo è stato uno dei momenti in cui ho compreso appieno il concetto di status sociale e ho capito come sia molto più immediato etichettare, descrivere e discriminare una persona in base ai gusti musicali.

Ma chi di noi non ha mai provato a chiamare lo 025613?
Grazie Pedro per avermi fatto sentire uno skaterboy.

FRANCESCO GABBANI – MAGELLANO (2017, BMG)

Ho sempre considerato Gabbani come colui che meglio rappresenta il concetto di tormentone pop perfetto: melodia da fischiettare sotto la doccia, ironici doppi sensi, toni vivaci e tantissimi sorrisi. La presenza di un Gabbani circoscritto a questo ideale mi starebbe tutto sommato bene. Non mi conquisterebbe, certo, ma la accetterei. Anzi sarebbe da stupidi, nei panni di un discografico, togliere il mangime ad una così grassa gallina dalle uova d’oro.

Ma in questo album il toscano esce parecchio dal seminato, lasciando spazio addirittura all’introspezione. Non ne ero pronto.
E forse non lo sarò mai.

DUE DI PICCHE – C’ERAVAMO TANTO ODIATI (2010, Sony Music)

Neffa e Ax propongono un poppettino che per fortuna non ha intaccato i progetti delle due carriere prese individualmente.

C’eravamo tanto odiati è un prodotto confezionato per un palato ben differente da quello della storica fanbase.
Palato che sicuramente non è il mio.

GIORGIA – POP HEART (2018, Sony Music)

Ho sempre amato Giorgia, parlarne male mi fa piangere il cuore.
Ma questo album di cover di dubbio gusto spero sia un regalo di Natale che mia sorella non ha avuto il coraggio di riciclare.
Ah, nel disco c’è anche Eros Ramazzotti.

STING & SHAGGY – 44/876 (2018, Interscope)

Eccoci davanti ad un altro chiaro esempio in cui l’unione non fa la forza. Inizialmente il progetto avrebbe dovuto limitarsi al singolo Don’t male me wait, che tutto sommato è anche un bel tributo alla musica caraibica, ma Sting e mr Bombastic si sono evidentemente lasciati prendere la mano, fomentati dal lusinghiero successo di vendite del singolo (subito primo nella chart reggae di Billboard), finendo per registrare un intero album lontano dai lavori a cui ci avevano abituati.

Per fortuna è stato solo un breve momento di crisi creativa per l’ex leader dei Police e il rapper giamaicano. 44/876 resta per me un disco buono solo come sottofondo al chiringuito sul lungomare di Gallipoli.

PAOLO MENEGUZZI – LEI È (2003, BMG Ricordi)

Durante il ritornello di Verofalso di Paolo Meneguzzi è apparso un ologramma di Mahatma Gandhi che ha iniziato a prendermi a sberle.

RADIOHEAD – PABLO HONEY (2018, Mute / Little Idiot)


Per quanto il mio sonno sia profondo, vi assicuro che venire buttato giù dal letto con i piagnistei di Thom Yorke non è per niente una bella cosa, soprattutto se piove e la notte prima hai sognato l’ex fidanzata.

Sono passati 25 anni dall’uscita di Pablo Honey, ma questo disco resta comunque il lavoro più debole, incompleto e moscio di tutta la discografia dei Radiohead. Un album che non regalerei nemmeno al mio peggior nemico. Credo che mia sorella me l’abbia rubato perché ha confuso il fiore in copertina con il girasole del Festivalbar. (NB: Creep è il brano dei Radiohead con più play su Spotify)

Certo ci sono anche stati risvegli fantastici (per quanto un risveglio possa essere positivo) grazie a Loose di Nelly Furtado, Is This It degli Strokes o Sign Of A Struggle dei Mattafix. Domani spero di svegliarmi con i Gorillaz.

Photo by Umberto Cofini on Unsplash